Tra Eccellenza e Benessere. Strategie per equilibrare lavoro e vita privata nei contesti di lavoro flessibile: il caso dell’accademia

Che lavoro fai? Faccio ricerca, all’università. Wow!
Alcuni lavori, soprattutto quelli autonomi, creativi e intellettuali, sono percepiti come lavori di alto status, ma questo prestigio sociale ha un costo in termini di tempo, con un impatto significativo sul benessere (Nicholls et al., 2022). In questo articolo portiamo come esempio l’accademia, mettendo in luce le sfide da affrontare per perseguire un buon equilibrio vita-lavoro e suggeriamo 10 possibili strategie basate su ricerche recenti. L’equilibrio vita-lavoro si realizza quando le persone percepiscono la propria capacità di gestire in modo armonico il lavoro e la vita personale, garantendo soddisfazione in entrambi gli aspetti, mantenendo la propria salute e benessere (Casper et al., 2018). Può forse sorprendere che l’equilibrio tra vita privata e lavoro sia un tema problematico per ambienti di lavoro caratterizzati da grande flessibilità, in cui la performance è valutata sul lungo termine e non sui compiti quotidiani e dove le persone lavorano in modo autonomo e con grande passione. Ma proprio queste stesse caratteristiche rappresentano dei fattori di rischio. Infatti, la ricerca ci mostra che la passione sul lavoro (in termini tecnici, engagement) è associata ad una incapacità di dire di no, di limitare le proprie azioni lavorative ai compiti strettamente legati al ruolo centrale, promuovendo invece attività extra-ruolo e orari di lavoro prolungati. Insomma, se ami molto il tuo lavoro, e lo puoi fare dove e quando vuoi, il rischio di lavorare troppo (se non sempre) è davvero alto! Innanzitutto, lavorare in questo tipo di ambiti richiede eccellenza. Questo termine, tanto generale quanto spesso vuoto, diventa in molti casi un modo per giustificare politiche governative neoliberiste, che spingono verso il perfezionismo e la corsa al riconoscimento (Rosa, 2022). In accademia, ad esempio, gli standard per l'eccellenza fungono da metro di valutazione del proprio progresso nelle varie fasi della carriera. Tuttavia, queste smanie di perfezione e successo spesso portano a lavorare molte ore, alla sera e durante i fine settimana. A questo elemento si aggiungono l’eterogeneità e molteplicità dei compiti, quali la pubblicazione in riviste prestigiose, le partecipazioni a convegni, la produzione di progetti di ricerca di alto livello, l’insegnamento, la costruzione di collaborazioni internazionali, la ricerca di finanziamenti e la divulgazione scientifica al pubblico. Senza contare i compiti istituzionali, fatti per lo più di burocrazia. Le persone nel contesto accademico sacrificano il loro tempo libero, spesso in isolamento, anche per compiti che potrebbero non avere un impatto significativo o che non percepiscono come tali (Nicholls et al., 2022). Questo viene ulteriormente enfatizzato dal fatto che è sempre più presente la credenza che il consumo di tempo (in alternativa agli introiti economici) sia diventato un indicatore di status (Bellezza et al., 2017). Come descrive il filosofo Pascal Chabot (2013, p. 59) “La parola d’ordine, ormai, è quella di adattarsi ai calendari, ai ritardi, agli orari, alle riunioni. L’ora è ovunque, il tempo non è da nessuna parte […]. Il tempo come soglia di morte, il minuto fatale ed angosciante, la scadenza oltre la quale ci trasformiamo in perdenti”. Ma venendo al dunque, quali sono le ripercussioni di questo modo di lavorare? Confrontando la qualità della vita lavorativa di persone che lavorano in accademia e non, Fontinha e colleghi (2019) hanno riscontrato una minor qualità nella popolazione accademica, aggravata dal maggior numero di ore extra lavorative, potenzialmente a causa della natura ipercompetitiva dell'accademia. Questa cultura è particolarmente dannosa per i/le giovani ricercatori/ricercatrici che, vincolati da contratti a breve termine, sono costretti/e ad abbracciare orari di lavoro insostenibili per la paura della stagnazione professionale. I/le dottorandi/e sono sei volte più inclini a sviluppare ansia e depressione rispetto alla popolazione generale (Evans e al. 2018, vedi anche Satinsky et al. 2021) e questa pressione può diventare così insostenibile da portarli al burnout (Woolston, 2020). Uno studio condotto da Cannizzo e colleghi (2019) ha dimostrato che il mancato beneficio delle politiche formali di equilibrio vita-lavoro da parte dei/delle giovani ricercatori/ricercatrici è parzialmente spiegata dalle culture organizzative centrate sul lavoro che promuovono l’idea che riposarsi sia immorale. Quante volte rispondiamo "sono stanco/a" quando ci chiedono come stiamo? Quante volte siamo tornati/e dalle ferie solo per raccontare come abbiamo continuato a lavorare? Le narrazioni scambiate nei corridoi contribuiscono a comportamenti dannosi che erodono l’equilibrio tra lavoro e vita privata. Confronto sociale e competizione, elementi che sono favoriti in particolari contesti lavorativi, come quello accademico, si sono dimostrati promotori del sacrificio di aspetti importanti della propria vita, spingendo lavoratrici e lavoratori a dedicare più tempo ed energia al lavoro, nella ricerca continua di uno status sociale più elevato (Filippi et al., 2023a). Per quanto riguarda le differenze individuali nell'equilibrio tra lavoro e vita nell'accademia, la ricerca suggerisce che certi tratti di personalità svolgono un ruolo cruciale. Secondo il modello dei Big Five (un modello teorico che raggruppa i tratti di personalità in cinque grandi gruppi: estroversione, coscienziosità, gradevolezza, apertura all’esperienza e stabilità emotiva), i tratti di gradevolezza, coscienziosità e apertura all'esperienza sono associate a un maggiore equilibrio tra lavoro e vita (Akanni & Oduaran, 2017). Anche il genere gioca un ruolo cruciale in questo contesto, anche se i risultati sono ambigui.

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