Clima etico e identità sociale: gli effetti sulla vita organizzativa dei dipendenti

Cos’è il Clima etico organizzativo?

Settembre 2015. L’agenzia della protezione ambientale americana scopre uno degli scandali aziendali che passeranno alla storia. Una nota casa produttrice automobilistica tedesca viene accusata di falsare i dati delle emissioni delle proprie auto (Repubblica, 2015[1]). Lo scandalo che ne segue conduce al richiamo di molte auto vendute dalla casa automobilistica tedesca, suscitando scalpore a livello internazionale. Quello che l’opinione pubblica si domanda è come sia possibile che tra centinaia di lavoratori nessuno fosse a conoscenza dell’illecito e di conseguenza nessuno abbia deciso di denunciarlo.

Il caso aziendale riportato nelle righe sopra è esemplificativo dell’attenzione rivolta non soltanto dall’opinione pubblica e dalle autorità competenti ma anche dalla psicologia sociale e delle organizzazioni alle pratiche non etiche nel mondo aziendale. Anche in vista dell’aumentare di episodi come questi, negli anni ’80 del secolo scorso Victor e Cullen (1987; 1988) focalizzarono l’attenzione su ciò che definirono Clima Etico Organizzativo, inteso come “l’insieme delle percezioni accettate e condivise dai dipendenti, che caratterizzano il giusto comportamento da mettere in atto all’interno di un gruppo di lavoro più o meno ampio”. A partire da questa prima definizione, nel corso degli anni un’ampia letteratura scientifica ha mostrato l’importanza di questo costrutto sulla vita organizzativa in relazione al benessere del dipendente e al profitto, economico e reputazionale, dell’azienda stessa (Martin & Cullen, 2006). Il costrutto intercettato dalla definizione di Victor e Cullen ha infatti offerto un modo di osservare l’ecosistema della vita organizzativa, spingendo i ricercatori e le ricercatrici a considerarla una chiave di lettura fondamentale per la natura delle relazioni tra lavoratori e tra lavoratori e organizzazione.

Accanto al proliferare di ipotesi che vedevano il clima etico come un insieme di azioni giuste, o sbagliate, messe in atto dai lavoratori e dall’azienda stessa (Mayer et al., 2010), Victor e Cullen (1988) offrirono una prima tassonomia dei possibili climi etici rintracciabili nelle organizzazioni, differenziandoli sulla base della qualità delle percezioni e non solamente sulla quantità delle azioni. Basandosi su alcuni principi della filosofia morale applicati alla vita organizzativa, l’analisi condotta dagli studiosi comprendeva l’intersezione di due dimensioni fondamentali per la gestione delle dinamiche interne alle aziende. Da un lato, vi erano i criteri etici (Principio, Benevolenza, Egoismo) considerati per prendere le decisioni e, dall’altro, i loci di analisi (Individuale, Locale, Cosmopolita) che definivano l’area dell’intervento manageriale (Figura 1).

 Il prodotto di questa interazione era una matrice che determinava l’esistenza di 9 climi etici differenti: tuttavia, se da un punto di vista puramente teorico questi nove tipi di clima potevano apparire chiari e razionali, studi successivi condotti anche dagli stessi autori consentirono di concludere come questa divisione fosse troppo rigida e non considerasse quella sfumatura tipica delle relazioni umane, che le differenzia dalle relazioni di tipo matematico. Questa riflessione, assieme a ulteriori studi, condusse a una nuova classificazione che questa volta prevedeva 5 tipi di clima etico organizzativo (Figura 2). Infatti, la verifica empirica della tassonomia originaria mostrò come non tutti i nove climi etici trovassero riscontro nella realtà. Questa nuova ripartizione, che eliminava l’accavallarsi delle definizioni di alcuni climi etici della prima tassonomia, ha offerto una visione più pragmatica e accurata del costrutto, dando il via al susseguirsi di numerosi studi che vedevano il clima etico come una nuova chiave di lettura degli atteggiamenti e dei comportamenti dei dipendenti.

 

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