Perché Joker merita di essere visto (anche da chi ama la psicologia)
Attenzione…se non hai ancora visto Joker è meglio non leggere questa recensione… Torna dopo a leggerla, se ne hai voglia.
Da cosa cominciare nel racconto di questo film? Dal fatto che entriamo senza sconti e fin dalla prima scena, nel mondo spietato in cui Arthur, il protagonista, trascorre la sua struggente esistenza. Arthur, interpretato magnificamente da Joaquin Phoenix, è un uomo con una fragilità psicologica ma non è solo la sua fragilità a descriverlo: si prende cura con dolcezza e affetto di sua madre e mantiene economicamente questo piccolo nucleo familiare.
In una NY/Gotham city spettrale, ad accompagnare Arthur in tutto il racconto è una condanna: essere fuori sincrono con il resto del mondo attorno a lui. Non c’è nulla da ridere attorno a sé ma i suoi attacchi di riso irrompono prepotenti e disperati, provocando disagio, sospetto, fastidio, ira negli altri. Esiste una connessione fra le azioni sincroniche interpersonali e le nostre esperienze mentali condivise - from keeping together in time, to keeping together in mind - e la sincronia comportamentale può favorire la sincronia emotiva1.
Con il procedere del film, è chiaro che sua madre, in una storia penosa di abusi e maltrattamenti infantili, ha avuto un ruolo cruciale nella condanna a quest’asincronia che investe non solo la sua risata ma la sua condizione esistenziale. È il nome a fornirci la nostra prima forma di identità, il primo diritto con cui ci muoveremo nel mondo, diritto negato ad Arthur. Happy è come la madre lo chiama ossessivamente, in un contrasto beffardo e amaro rispetto alla reale condizione di sofferenza del figlio, che lei non riesce proprio a scorgere. La prima maschera che indossa Arthur quindi non è quella del pagliaccio, di Joker: è quella deformante di una persona costretta, a dispetto di tutto, a portare sulle sue spalle il mandato di rendere felice e far sorridere gli altri, è così che gli ha intimato sua madre di fare “to spread joy and laughter, smile and put on a happy face”. L’unico caldo rifugio in questo mondo spaventoso sono le sue fantasie e allucinazioni. E lì che la realtà rabbiosa e crudele diventa accogliente e supportiva, popolandosi di un padre affettuoso, una donna innamorata, un pubblico divertito.
La storia di Joker colpisce perché descrive nitidamente come una situazione complessa può evolvere in tragedia semplicemente per la disponibilità di un’arma. Con il cosiddetto weapon effect2, sappiamo che non è solo la disponibilità di un’arma ma addirittura la sua mera presenza nel campo percettivo di una persona ad aumentare i livelli di aggressività. Mutuando le parole di Berkowitz, una persona può fare scattare il grilletto, ma anche il grilletto può fare scattare una persona. Joker non è solo un film che racconta il disagio psichico e il potere del contesto sociale nel deviare quel disagio in qualcosa di pericoloso per sé e per gli altri ma anche una critica politica della società americana e del suo problema gigantesco con le armi. Altro aspetto politico del film è lo sguardo critico con cui racconta l’indignazione rabbiosa e impotente contro le ingiustizie sociali, un’indignazione a cui non segue azione politica, che intossica le persone e le lascia sole in una situazione immutata di disparità3. Nessuno prova insieme agli altri a cambiare le cose e a ridurre le ingiustizie di Gotham/NY city ma da singolo distrugge furioso tutto quel che trova nel suo percorso. Sono vicini i tanti clown nella metropolitana ma non sono insieme. Ed è proprio nel momento di massima furia distruttiva che il popolo dei clown acclama Joker, solo fra soli, come il proprio condottiero o forse come il proprio dio. In una città dove la violenza scomposta si propaga ovunque fra incendi e distruzioni vandaliche, la scena in cui una folla indistinta e senza volto, protetta dalla maschera da clown, trascina ieraticamente Joker fuori dall’automobile, dopo un terribile incidente, ricorda la deposizione di Cristo di Caravaggio in cui gli apostoli sorreggono addolorati e solenni il corpo di Cristo.
Questo è un film in cui, scena dopo scena, la solitudine, la disperazione, la rabbia, il desiderio di rivalsa di Arthur ti arrivano dritto in pancia con una splendida colonna sonora che è racconto a sua volta. C’è anche un momento commovente e poetico nel film, l’unico momento in cui Arthur non è solo nella sua risata, l’unico momento armonico in cui riesce a ridere autenticamene con gli altri. Quando? Al cinema. Capita per caso in quel cinema ma è solo lì che riesce ad essere finalmente in sintonia con gli altri attorno a sé, ridendo divertito, perché l’arte in fondo è la nostra più potente salvezza e liberazione.
1.Baimel, A., Severson, R. L., Baron, A. S., & Birch, S. A. (2015). Enhancing “theory of mind” through behavioral synchrony. Frontiers in psychology, 6, 870.
2.Berkowitz, L., & LePage, A. (1967). Weapons as Aggression-Eliciting Stimuli. Journal of Personality and Social Psychology, 7, 202-207.
3.Per una disamina recente e sistematica degli aspetti psicosociali collegati alle disuguaglianze di genere si segnala il testo di Chiara Volpato, Le radici psicologiche della disuguaglianza. Qui la recensione di Federica Durante sulla nostra rivista https://it.in-mind.org/blog/post/le-radici-psicologiche-della-disuguagli...
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