Cara Giulia. Cosa imparare dalla lettera alla figlia di Gino Cecchettin

Pochi giorni fa c’è stata nella mia città la presentazione del libro di Gino Cecchettin, Cara Giulia [1], alla presenza dell’autore. Ci sono andata perché volevo capire, farmi un’idea personale, dopo tante interpretazioni mediatiche. Dico subito che la mia impressione è stata integralmente positiva; Gino Cecchettin mi è sembrato una persona onesta, chiara, coraggiosa, capace di trasmettere idee e vissuti in modo diretto, con intelligente semplicità. La sala, molto grande, era piena di gente di ogni età, con tante donne e un numero minore, ma consistente, di uomini. La presenza di questi ultimi mi è sembrata significativa, soprattutto se paragonata ai consueti incontri in cui si discute dei temi relativi alla violenza di genere, frequentati quasi esclusivamente da rappresentanti del genere femminile. Mi sono spesso chiesta il perché di questa differenza di sensibilità e partecipazione e mi sono risposta che le donne partecipano perché si sentono coinvolte in prima persona, si identificano nelle vittime, sanno che una sorte simile potrebbe capitare a loro, alle loro figlie, sorelle, madri. Gli uomini, invece, prendono le distanze dai perpetratori perché sanno - o credono, o si illudono - di essere diversi, di essere incapaci di agire la violenza. Mi fanno venire in mente “l’effetto pecora nera”, una forma sofisticata di favoritismo per l’ingroup, messo in luce nel lontano 1988 da Marques e colleghi [2]. Secondo tale effetto, il membro deviante del gruppo di appartenenza viene giudicato in modo estremamente severo perché questo giudizio permette di mantenere una visione positiva del gruppo, preservandone così l’identità sociale. Il fenomeno è dovuto alla rilevanza che il comportamento dei singoli membri ha nella valutazione dell’immagine collettiva, per cui il giudizio sui componenti che si comportano in maniera soddisfacente viene estremizzato in senso positivo, dato che contribuisce al mantenimento della definizione positiva del gruppo, mentre il giudizio sui componenti che si comportano in maniera insoddisfacente viene estremizzato in senso negativo, provocando l’allontanamento delle “pecore nere” affinché non nuocciano all’immagine complessiva del gruppo. Se questa ipotesi è corretta, nella percezione che gli uomini hanno del loro gruppo di genere, i membri che commettono violenza nei confronti di donne, bambine e bambini sono dei devianti, che non fanno parte del gruppo degli uomini “normali”, vale a dire coloro che si comportano “normalmente” e con i quali ci si identifica.

Tornata a casa, ho trascorso la sera leggendo il libro di Cecchettin, una lunga lettera indirizzata dal padre alla figlia perduta. La lettura ha rafforzato e fatto sedimentare le impressioni che avevo avute durante l’incontro del pomeriggio. Ho ritrovato nelle pagine scritte molte delle parole che avevo sentite, in una coerenza di sentimenti, ragionamenti, stile, che mi ha colpito. Per questo ho deciso di parlarne qui, perché penso che questo libro, nella sua semplicità e profondità, possa servire a tutte e a tutti per riflettere su quanto succede intorno a noi e dentro di noi. La semplicità evoca spesso la superficialità. Non in questo caso. Qui la semplicità è capacità di dire in modo diretto cose importanti sulle relazioni, soprattutto sulle relazioni tra genitori e figli, e sui momenti topici che segnano le nostre vite. Il motivo che più mi ha colpito durante la lettura è la capacità di reagire alla tragedia con razionalità, mettendo a tacere la rabbia e i sentimenti distruttivi, per dare un senso a quanto accaduto, insieme alla volontà di agire perché fatti del genere non accadano più e non si ripeta un dolore così grande. L’autore insiste molto sull’importanza di non dare spazio alla rabbia, coltivando al suo posto sentimenti positivi e costruttivi. Le sue parole mi hanno colpito e mi hanno portato a riflettere su questo sentimento, che ha, a mio parere, nel momento attuale, una valenza diversa per uomini e donne. Storicamente, gli uomini sono stati educati a controllare le emozioni, per non mostrarsi vulnerabili e mantenere la posizione di dominio; non tutte le emozioni sono però loro proibite: se paura, empatia e tenerezza vanno inibite, rabbia e collera, emozioni che solo chi appartiene a uno status elevato può permettersi, possono essere esibite come segnali di potere. Così, oggi, non coltivare la rabbia da parte di un uomo significa – credo sia questo il senso profondo della posizione di Cecchettin – cercare di reagire in modo nuovo rispetto al codice tradizionale nell’affrontare le tragedie con cui la vita ci confronta. Secondo l’autore: “Questo significa restare umani” (p. 46). Nel libro non si parla mai di vendetta, non si invocano pene particolari per l’assassino (che non viene mai nominato e sulla cui figura l’autore tace). Cecchettin si interroga semmai, anche se non è questo il cuore della sua testimonianza, sulle ragioni di “una cultura che fa della disparità tra i generi uno dei suoi fondamenti. Forse il più profondo.” (p. 123); questo lo porta a riflettere sulle radici culturali della violenza, su quell’humus composto di sentimenti, atteggiamenti, comportamenti collettivi che facilitano la violenza giustificandola e legittimandola. Con il desiderio e il proposito di contribuire a una “cultura della riconciliazione” che sostituisca la “cultura dello scontro, del sopruso e della forza” (p. 66) per “rendere il mondo più bello, più umano” (145). 
Per le donne, forse, il discorso è diverso. L’educazione tradizionale ci chiedeva di controllare, reprimere, nascondere rabbia e collera, emozioni inadatte al nostro status subordinato. Ne consegue che, oggi, esprimere pubblicamente tali emozioni può per noi avere una valenza positiva, capace di dare forza nella costruzione di un percorso collettivo di riscatto. 
 
[1]Cecchettin, G. (con M. Franzoso) (2024). Cara Giulia. Quello che ho imparato da mia figlia. Milano: Rizzoli.
 
[2] Marques, J. M., Yzerbyt, V. Y., & Leyens, J.-P. (1988). The “Black Sheep Effect”: Extremity of judgements towards ingroup members as a function of group identification. European Journal of Social Psychology, 18, 1-16.