07.03.2025 |
identità
Simone De Beauvoir: La passione per la libertà
L’8 marzo richiama l’attenzione sul pensiero femminista e il pensiero femminista non può che partire dalla considerazione dei due volumi del Secondo sesso, apparsi in Francia nel 1949, che costituiscono un testo fondante e uno snodo essenziale del pensiero femminista, con il quale ogni generazione si trova prima o poi a fare i conti. Ma non è sul Secondo sesso che vorrei soffermarmi oggi, bensì sui quattro libri che compongono l’autobiografia di Simone de Beauvoir e ne raccontano lo straordinario percorso di vita, libri ai quali va accostato anche il romanzo I Mandarini, premio Goncourt del 1954, che riflette le vicende personali della scrittrice e del gruppo di intellettuali che stava intorno a lei e a Sartre.
Il percorso autobiografico di Simone comincia con Memorie di una ragazza perbene (1958), che racconta l’infanzia e l’adolescenza della scrittrice, trascorse in un ambiente borghese e benestante, e la sua emancipazione da tale ambiente, da cui Simone prende progressivamente le distanze per distaccarsene totalmente durante gli anni universitari trascorsi a Parigi, durante i quali incontra alcune tra le figure più significative della cultura francese: Raymond Aron, Maurice Merleau-Ponty, Paul Nizan, e naturalmente Jean-Paul Sartre, che sarà per tutta la vita il suo amore “necessario”.
Il secondo volume, dedicato proprio a Sartre, narra gli anni che vanno dal 1929 al 1944 e si intitola L'età forte (1960); descrive infatti l’età della piena realizzazione di Simone, della sua presa di coscienza di sé, delle proprie possibilità e del mondo che la circonda, che le appare ricco di eventi, incontri, luoghi, libri da conoscere e amare. La scrittrice descrive qui le sue esperienze di insegnante a Marsiglia, Rouen, Parigi, i lunghi viaggi in Spagna, Grecia, Italia e Marocco, le discussioni stimolanti con gli amici intellettuali, i difficili e bui anni di guerra.
Il volume successivo, La forza delle cose (1963), inizia con la liberazione di Parigi dal giogo nazista e ci racconta i diciotto anni successivi fino alla conclusione della guerra d’Algeria, consegnandoci il ritratto di un’epoca attraverso la descrizione di avvenimenti politici e personali, nuovamente accompagnati dal racconto di viaggi, amicizie, incontri. Un ruolo particolare assume, nella prima parte, la narrazione dell’inquieta storia d’amore che lega Simone allo scrittore statunitense Nelson Algren, il più significativo dei suoi amori “contingenti”.
L’ultimo libro, A conti fatti (1972), organizzato per temi, con una scansione quindi meno cronologica rispetto ai precedenti volumi, racconta i dieci anni che Simone percepisce come l’inizio di una fase diversa della sua esistenza: “Non ho più l’impressione di dirigermi verso una meta, ma soltanto di scivolare ineluttabilmente verso la mia tomba” scrive nelle prime pagine. Una sensazione che non le impedisce però di riflettere, ancora una volta ma sempre con accenni diversi, sui suoi rapporti con Sartre e con il gruppo di amici che costituisce la sua famiglia, e di annotare le passioni politiche, letterarie, artistiche.
Questi libri hanno significato molto per me. Li ho letti sul finire dei vent’anni, durante alcuni mesi passati a Losanna con una borsa di studio, e ho poi continuato a riprenderli in mano nei decenni successivi, trovando in essi un rifugio e una fonte di ispirazione. Di queste pagine mi è rimasto tanto: suggerimenti di pratiche possibili, percorsi da tentare, riflessioni su fallimenti ammessi e ripensati con lucidità e dignità.
Vorrei citare un paio di esempi che mi hanno fatto compagnia.
Il primo è la pagina, nell’Età forte, che cita le scarpe basse come pratica di libertà, le scarpe che permettono di fuggire rapide da ciò che si rifiuta e di correre veloci verso ciò che si desidera. Mi ha ispirato, rassicurato sul mio rifiuto dei canoni estetici imperanti, mi ha fatto riflettere con una sfumatura di tristezza quando studiavo i fenomeni di oggettivazione e auto-oggettivazione che tanto appesantiscono le vite femminili. Tra parentesi, vorrei ricordare che nel Secondo sesso Simone de Beauvoir dà probabilmente la prima descrizione dell’esperienza di auto-oggettivazione esperita dalle donne, un tema che, come sappiamo, sarà poi frequentatissimo dalla ricerca psicosociale.
Il secondo esempio è costituito dalle pagine della Forza delle cose che descrivono il rapporto con la Francia durante il periodo della guerra di Algeria. Simone non si sentiva più a suo agio nel suo paese; troppo spesso al caffè, per la strada captava brandelli di conversazione che la ferivano, troppo spesso assisteva a pubbliche prese di posizione o si trovava a leggere articoli che la indignavano, segni di un imbarbarimento del sentire comune provocato dal desiderio dei suoi concittadini di continuare a essere dei colonizzatori, padroni del territorio e dell’anima altrui. Con la consueta lucidità arriva a dire: “Io e altri eravamo stati trattati da antifrancesi: lo diventai. Non sopportavo più i miei concittadini.”
E più sotto: “E forse anche peggio, perché di quella gente di cui non sopportavo più nemmeno la vicinanza, mi trovavo nolente o volente a essere complice. Questo soprattutto non riuscivo a perdonarle. Perché ragionassi diversamente avrebbero dovuto fin dall’infanzia formarmi come una SS o un para, invece d’inculcarmi una coscienza cristiana, democratica, umanistica; una coscienza insomma. Per vivere avevo bisogno di avere stima di me stessa, mi vedevo invece con gli occhi delle donne violentate, degli uomini a cui erano state rotte le ossa, con gli occhi dei bimbi impazziti: una francese”.
Questa pagina mi è tornata in mente più volte negli ultimi anni di fronte al nostro imbarbarimento, a un’Italia che rifiuta chi chiede aiuto e chiude gli occhi davanti ai morti nel Mediterraneo. Una pagina che mi invita a non distogliere lo sguardo e mi suggerisce di guardarmi con gli occhi di chi è sottoposto a violenze e arbitri, delle ragazze prigioniere della tratta, dei bambini spaventati, cacciati, sommersi. E che mi porta a interrogarmi su un’identità coloniale che rifiuto, ma che mi sento addosso come italiana, europea, occidentale, come parte cioè di un mondo privilegiato che non assume il carico e la responsabilità di quanto è successo e sta succedendo nel mondo, in Israele, in Palestina, in Ucraina, in Sudan, in Congo.
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