09.02.2025 |
identità
Il posto di Annie Ernaux
Annie Ernaux è una delle mie scrittrici preferite. Parla di sé e di noi con una lucidità spesso sconcertante, a volte con crudezza, sempre con precisione, e ci colpisce per la capacità di evocare stati d’animo ed emozioni che solitamente celiamo senza il coraggio di rivelarli nemmeno a noi stessi. Non a caso, a suo parere, la scrittura deve incidere come una lama nella realtà del mondo con l’obiettivo di sovvertire la visione di privilegiati e dominanti (Ernaux, 2003). Non a caso ha vinto nel 2022 il premio Nobel che le è stato assegnato “per il coraggio e l’acutezza clinica con cui svela le radici, gli allontanamenti e i vincoli collettivi della memoria personale.” Nel discorso di accettazione del premio, ha rivelato di aver cominciato a scrivere “per vendicare la mia razza”, facendo eco al grido di Rimbaud: “Sono di razza inferiore dall’eternità”, e ha soggiunto che da giovane pensava, forse ingenuamente, che diventare scrittrice, per lei che proveniva da una stirpe di contadini, operai e piccoli commercianti, da sempre disprezzati per modi, accento, mancanza di cultura, sarebbe stato un modo per riparare l’ingiustizia sociale della nascita (Ernaux, 2002).
E’ difficile scegliere un titolo nella ricca bibliografia di Ernaux perché tutti insieme i suoi libri compongono un grande affresco che racconta un pezzo della storia degli ultimi decenni. Nelle sue pagine, tutte di impronta autobiografica, tutte meritoriamente pubblicate in italiano dalla casa editrice L’Orma, Ernaux trasforma infatti la sua personale vicenda in uno strumento affilato di indagine sociale e politica. Parla di sé senza mai dimenticare il “noi”, sempre consapevole che ciò che viviamo è intrinsecamente legato alle nostre appartenenze di classe, di genere, di età, in breve alla posizione che occupiamo nel mondo. I suoi libri fanno venire immediatamente in mente la lezione di Pierre Bourdieu sul capitale sociale, culturale e simbolico che possediamo o non possediamo, sull’habitus che determina ciò che gli altri percepiscono di noi, sulla possibilità di comprensione che deriva dalla riflessività, vale a dire dalla capacità di fare un’attenta analisi psicosociale di noi stessi, provando a esplorare i determinismi che condizionano la nostra storia personale e sociale. Ma i libri di Ernaux ricordano anche la lezione di Henri Tajfel perché l’esplorazione della biografia e dello sviluppo dell’identità personale dell’autrice è sempre accompagnata dall’esplorazione della storia e delle identità collettive. In questo senso, come magistralmente esemplificato da uno dei suoi libri più belli, Gli anni, non esiste per Ernaux una vicenda personale che non sia anche, imprescindibilmente, collettiva (Ernaux, 2008).
Non potendo parlare di tutti i suoi romanzi, mi soffermo su Il posto, forse perché è il primo che ho letto e resta nel mio ricordo una grande scoperta (Ernaux, 1983). Il libro racconta del padre, nato contadino, poi divenuto operaio, infine gestore di un bar/drogheria in un piccolo paese della Normandia, del loro rapporto e della loro progressiva estraneazione dovuta al passaggio di classe di Annie che, grazie agli studi e al matrimonio con un borghese compagno di università, diventa insegnante e scrittrice, allontanandosi dall’universo famigliare. Progressivamente, durante l’adolescenza e la giovinezza, si era infatti formata tra Annie e il padre “una distanza di classe, ma particolare, che non ha nome. Come dell’amore separato.” Una distanza che aveva iniziato a crearsi fin dall’adolescenza, quando Annie aveva cominciato a registrare nella sua mente episodi come quello successo quando lei e il padre si erano per la prima e unica volta recati insieme in biblioteca:
“Una domenica, dopo la messa, avevo dodici anni, sono salita con mio padre lungo la grande scalinata del municipio. Abbiamo cercato l’ingresso della biblioteca comunale. Non ci eravamo mai andati. Per me era una festa. Da dietro la porta non proveniva alcun rumore. Tuttavia mio padre l’ha spinta. Dentro c’era un gran silenzio, ancora più che in chiesa, il parquet scricchiolava e soprattutto c’era quell’odore strano, antico. Due uomini ci osservavano da dietro il bancone molto alto che sbarrava l’accesso agli scaffali. Ci siamo avvicinati, mio padre mi ha lasciato dire: «Vorremmo prendere in prestito dei libri». Uno dei due uomini, subito: «Che libri cercate?». A casa non avevamo pensato che ci sarebbe stato bisogno di sapere in anticipo cosa si voleva, essere capaci di citare agevolmente titoli come marche di biscotti. Hanno scelto loro al posto nostro, Colomba per me e un romanzo leggero di Maupassant per mio padre. Alla biblioteca non siamo più ritornati. È stata mia madre a restituire i libri, forse, in ritardo.”
Questo è il primo di una serie di episodi che hanno a poco a poco relegato il padre “nella categoria delle persone semplici, o modeste, la brava gente”, mentre Annie sempre più si chiudeva in se stessa allontanandosi dai genitori fino a divenire una “transfuga di classe”, segnata da un profondo e incancellabile senso di colpa. Come è noto, l’ascesa sociale comporta passaggi delicati e dolorosi, che necessariamente comprendono un processo di disidentificazione dal gruppo di provenienza. Tra i costi psicologici della mobilità sociale vi è infatti l’allentamento dei legami familiari, amicali, di comunità. Chi conquista una nuova identità corre il rischio di sentirsi perennemente un essere in transizione, stretto tra due mondi, con tutto il carico di sofferenza personale e sociale che tale stato implica; sentirsi distante sia dal mondo d’origine sia da quello d’arrivo offre però l’opportunità di guardare a entrambi con uno sguardo critico, capace di cogliere luci e ombre. Forse proprio da qui è nato l’impulso che ha portato alla scrittura Annie Ernaux.
Bibliografia
Ernaux, A. (2003). La scrittura come un coltello. Roma: L’Orma, 2024.
Ernaux, A. (2022). Il mio Nobel è vendetta, La Repubblica, 8 dicembre.
Ernaux, A. (2008). Gli anni. Roma: L’Orma, 2015.
Ernaux, A. (1983). Il posto. Roma: L’Orma, 2014.
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