Le persone adottate in Italia: straniere o italiane?
"Come parli bene l'italiano, sei qui da molto?": questa è una delle domande che le persone che sono state adottate possono sentirsi rivolgere. Soggiace a questo interrogativo uno stereotipo largamente diffuso nella popolazione italiana circa la nazionalità delle persone adottate. Come rilevato da una ricerca su un campione rappresentativo della popolazione italiana (ICONA - Italy and Current Opinion oN Adoption; Lazzarini, 2021), meno della metà dei 1003 giovani adulti/e e adulti/e partecipanti considera italiano/a a tutti gli effetti le persone nate all’estero ed adottate in Italia. Eppure, il nostro ordinamento giuridico stabilisce chiaramente che attraverso l’adozione internazionale diventano pienamente cittadini/e italiani/e. La diffusione di questi stereotipi ha implicazioni significative per molte persone che vengono adottate e influenza la costruzione dell’identità. Queste tematiche sono state oggetto di alcuni studi condotti dall’équipe di ricerca ARTeam (Adoption Research Team) del Centro di Ateneo Studi e Ricerche sulla Famiglia dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano. I/Le ragazzi/e in adozione internazionale vivono una condizione del tutto particolare: sono nati/e in un determinato contesto culturale e appartengono a uno specifico gruppo etnico, ma, a seguito dell’adozione, entrano a far parte di una nuova cultura – essi/e di fatto compiono un processo “migratorio” vissuto “in solitaria” (Scherman, 2010) e non come membri di un gruppo migrante. È il/la bambino/a da solo/a a lasciare quella culla etnica e culturale di origine, dovendosi poi inserire nel contesto culturale di appartenenza della famiglia adottiva. Essere adottati/e ed etnicamente diversi/e da altri componenti della propria famiglia adottiva rende il processo di formazione dell’identità assai complesso (Ferrari et al., 2019; Lee, 2003). I figli o le figlie adottive non possono rispecchiarsi nei genitori: i tratti somatici, o meglio il corpo, diventano un “nodo critico” in quanto rimandano inevitabilmente a radici “altre”. Nel definire la propria rappresentazione di sé le persone che vengono adottate si confrontano con un compito di sviluppo aggiuntivo, che consiste nell’integrare in modo coerente e unitario l’identificazione con il gruppo etnico del Paese nel quale sono nate e il riferimento culturale trasmesso dai genitori adottivi. Come afferma Brodzinsky (2011), le persone che vengono adottate sono chiamate a riconoscere questa duplice appartenenza. Ma come possono tenere insieme questi due diversi aspetti? Per rispondere a questa domanda abbiamo ripreso il concetto di “Bicultural Identity Integration” (BII; Benet-Martínez & Haritatos, 2005). Ampiamente applicato nell’ambito degli studi sugli individui immigrati e sulle minoranze etniche, tale costrutto non era mai stato usato in riferimento a persone in adozione internazionale, ma è risultato particolarmente utile per individuare il grado con cui gli individui che sono stati adottati percepiscono i due riferimenti culturali come vicini (vs. distanti) e compatibili (vs. in conflitto). Coloro che riportano alti livelli di BII riescono a integrare nella propria definizione di sé entrambe le culture e vi fanno riferimento nella propria esperienza di vita: ad esempio, in questi casi le persone facilmente definiscono sé stesse facendo riferimento a una modalità integrativa tra i due riferimenti culturali. Chi, invece, ottiene livelli bassi di BII trova difficile incorporare le due culture in un coerente senso di identità, è sensibile a tensioni tra i due orientamenti culturali (ad esempio, potrebbero sentirsi combattuti/e tra il modo di fare del proprio gruppo etnico e quello italiano), al punto che questa incompatibilità talvolta diventa fonte di conflitto interno. Nel percorso a meandri che è lo sviluppo della definizione di sé, possono emergere tra le persone adottate diversi profili caratterizzati dalla percezione di un maggiore o minore conflitto e una maggiore o minore compatibilità e vicinanza tra le due appartenenze culturali. Dalle recenti ricerche che abbiamo condotto è emerso che l’integrazione e il bilanciamento delle appartenenze promuovono il benessere psicologico della persona adottata, la capacità di fare progetti, di pensarsi con fiducia nel futuro come attivo protagonista della propria esistenza (Ferrari et al., 2015b, 2019; Manzi et al., 2014). In altre parole, un alto livello di identificazione con la cultura italiana, una salda identità etnica e la percezione di compatibilità tra i due riferimenti culturali favoriscono il benessere psicologico e rafforzano l’autostima (ad esempio, Ferrari et al., 2015a). L’esito di tale processo di definizione di sé in termini biculturali dipende sia da variabili individuali sia da fattori relazionali. Dal punto di vista individuale, il processo di definizione di sé sotto il profilo etnico e di integrazione biculturale è strettamente connesso con l’apertura nei confronti della storia sulle proprie origini. Dare valore alla differenza etnica può rappresentare una sfida perché si intreccia con la questione delle origini e rimanda a una storia spesso segnata da eventi dolorosi. La differenza, spesso decisamente visibile, richiama la presenza, seppur simbolica, della famiglia di nascita cui è connesso il tema dell’abbandono. Inoltre, la costruzione dell’identità è un processo relazionale e non è, come spesso viene inteso, un percorso da effettuarsi in solitaria, ma un compito congiunto e condiviso: il sé acquisisce forma nella relazione con l'altro e quindi nei contesti di appartenenza (Scabini & Manzi, 2011).
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