Cercare le proprie origini: un diritto, un bisogno, un dovere?
L’interesse per le proprie origini fra pregiudizi e diritti
Ogni essere umano si interroga sulle proprie origini attraverso domande universali che sostengono il processo di definizione della propria identità e che divengono particolarmente sfidanti per alcune persone, come quelle toccate personalmente dall’adozione (Brodzinsky et al., 1993). I genitori adottivi, non solo per consuetudine, ma per obbligo di legge, sono chiamati a rendere noto lo status di “adottato” ai propri figli (il cosiddetto “disvelamento”) ed hanno il compito di raccontare loro gli elementi della storia pre-adottiva. Esiste però ancora una grande eterogeneità nel modo in cui le famiglie affrontano la cosiddetta “narrazione adottiva”, ossia il trasmettere al proprio figlio o figlia gli elementi che si hanno a disposizione sulla sua storia antecedente l’adozione; un processo fondamentale che mira a ridurre le fratture e promuovere una maggiore continuità del sé, che intrecci fra loro il prima e il dopo. Come sottolineato all’interno dell’Adoption History Project dell’Università dell’Oregon, il fatto che in passato si tendesse a nascondere quest’informazione ha lasciato una sorta di retaggio che porta ancora oggi a trattare come tabù tutto ciò che riguarda la storia pre-adottiva dell’individuo. Condividere questi elementi non è un compito semplice, perché da un lato richiede di comunicare informazioni spesso complesse e dolorose e, dall’altro, perché parlare delle origini significa rendere tangibile l’appartenenza “altra” del/la figlio/a, ricordare che esiste un “prima” in cui i genitori adottivi non erano presenti, mentre lo erano i genitori di nascita (che nella quasi totalità dei casi si sono rivelati abbandonici, trascuranti o maltrattanti; Adoption History: Adoption Narratives, University of Oregon, 2012). Anche fuori dalle mura familiari il tema delle origini suscita atteggiamenti differenti. Sembrano quasi esistere due scuole di pensiero, quella del “perché non cerchi?” e quella del “perché vuoi cercare?”. La prima stigmatizza chi non è attivamente alla ricerca di informazioni e di contatti con le persone del proprio passato, quasi si trattasse di un percorso obbligato, di un’opportunità che sarebbe grave sprecare. Talvolta sono gli stessi genitori adottivi a ricoprire questo ruolo, ad esempio spingendo il/la figlio/a a ritornare nel proprio Paese di nascita, o mettendosi alla ricerca di altre informazioni al suo posto. La seconda scuola di pensiero, invece, tende a biasimare coloro che sentono il bisogno di conoscere di più, come se ciò implicasse una non riconoscenza e non affiliazione alla propria famiglia adottiva: “se cerchi è perché non stai abbastanza bene dove sei”, oppure “perché vuoi causare un tale dolore ai genitori che ti hanno cresciuto?”. In entrambi i casi si tratta di una forma di intrusione esterna in un bisogno estremamente intimo, quello autobiografico, connesso agli aspetti più profondi della propria identità, che dovrebbe potersi sgravare del peso dei pregiudizi per consentire alla persona adottata di affrontare questo percorso nel modo più libero possibile, rispettoso del proprio sentire. La ricerca su questo tema è stata dapprima stimolata dalle battaglie degli adottati per veder riconosciuto il diritto ad accedere alle proprie origini, poi dall’avvento di mezzi che hanno consentito di rintracciare ed essere rintracciati dai familiari di nascita anche al di fuori dei canali istituzionali. Vedremo ora cosa è emerso da questi studi, soffermandoci sui livelli di interesse e sulle motivazioni sottostanti la ricerca delle origini.
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