Cercare le proprie origini: un diritto, un bisogno, un dovere?

Cercare dentro e cercare fuori: due processi connessi ma distinti

Fra le persone adottate, la curiosità assume una forma specifica, la cosiddetta “adoption-related curiosity”, che si manifesta sin dalla fanciullezza e persiste per tutto il ciclo di vita, (Schechter & Bertocci, 1990; Tieman et al., 2008) divenendo più evidente in adolescenza e nella giovane età adulta, quando la persona è impegnata a esplorare la propria identità e riesce a cogliere maggiormente il significato e le implicazioni dell’adozione (Schechter & Bertocci, 1990; Tieman et al., 2008; Brodzinsky, 2011; Erickson, 1968; Brodzinsky, 2011). Si tratta di quella che è abitualmente definita “ricerca interna”, un percorso che vede la persona adottata (sovente in adolescenza) interrogarsi sul proprio passato, sui motivi che l’hanno portato all’adozione, sulla sua famiglia di nascita, su come avrebbe potuto diventare se fosse cresciuto/a altrove. Interrogativi quali “Perché proprio io?” e “Sarò stato dimenticato?” toccano corde profonde e, per questo, possono generare forti reazioni sul piano emotivo. Questo processo è universale e fisiologico tanto che, quando è del tutto assente, dovrebbe destare preoccupazione. Un interessante studio svedese condotto coinvolgendo giovani adulti provenienti dall’adozione internazionale, che ha confrontato i modelli operativi interni dell’attaccamento con l’interesse per le proprie origini, ha mostrato un’associazione fra i profili irrisolti all’Adult Attachment Interview (George et al., 1985) e l’assenza di pensieri rispetto alla famiglia di nascita (Irhammar & Bengtsson, 2004). Per restare all’interno della cornice teorica dell’attaccamento (Bolwby, 1989) potremmo quindi affermare che l’interrogarsi rispetto alle proprie origini è un movimento naturale che non implica l’assenza di attaccamento alla famiglia adottiva, ma al contrario può essere inteso come un’operazione esplorativa che denota una certa sicurezza nelle relazioni. La ricerca interna non porta però automaticamente alla cosiddetta ricerca esterna, quel processo in cui la persona adottata indaga attivamente per ottenere più informazioni di quelle già in suo possesso. Fra queste, citiamo ad esempio la ricerca di ulteriori documenti sanitari e sociali, di alcune immagini e fotografie (di luoghi o persone), della voce diretta di alcuni personaggi della propria storia (giudici, operatori, familiari di nascita), del contatto con alcuni parenti biologici. Un’esplorazione attiva (la cosiddetta active search) che di solito scatta in occasione di momenti di transizione della vita adulta, come l’approcciarsi alla genitorialità, la perdita dei genitori adottivi o il loro divorzio. Il processo di ricerca delle informazioni sulla propria storia, sia interno sia esterno, è di natura dinamica e muta nel tempo, in quanto strettamente connesso ai processi identitari. È quindi limitante “immortalarlo” in un unico momento della vita, perché coloro che oggi si dicono non interessati potrebbero diventarlo in futuro e viceversa, sulla base dell’evolversi dei processi introspettivi e delle consapevolezze maturate, oltre che su sollecitazione di eventi di vita che vanno ad incidere sull’identità della persona. Non è chiaro quanto siano rappresentati gli active searcher perché non è semplice tracciare i percorsi di ricerca esterna. Gli studi riportano percentuali che vanno dal 40 al 50% per l’adozione nazionale, al 32% per l’adozione internazionale (Muller & Perry, 2001; Tieman et al., 2008). In Italia un’indagine dell’Istituto degli Innocenti ha interpellato i vari tribunali per i minorenni sondando quante persone avessero fatto istanza per accedere al proprio fascicolo: nel quinquennio 2012-2017 sono state 1496, circa 300 all’anno (Istituto degli Innocenti, 2018). Questo dato, però, oltre a non coprire la totalità dei tribunali italiani, è inevitabilmente sottostimato perché sappiamo che molte - forse la gran parte - delle ricerche attive procedono per altri canali, come gli appelli sui social, il ricorso a intermediatori investigativi e ai test del DNA (Casonato, 2015; Malacrida & Casonato, 2021). In uno studio condotto con la partecipazione e la collaborazione delle associazioni delle persone adottate adulte (ANFAD, FAeGN e il gruppo AAA) che ha esplorato l’identità e la ricerca delle origini raggiungendo 111 persone adottate, il 47% ha dichiarato di aver avviato una ricerca esterna, cui va aggiunto il 13% che ha affermato di aver già concretamente pianificato di iniziarla (Ferrari et al., 2021). Questo studio, però, potrebbe portare con sé un bias di selezione del campione, in quanto è probabile che vi abbiano preso parte soprattutto le persone già interessate alle origini. Ciò che appare certo, perché confermato in maniera trasversale da tutti gli studi, è che solo una parte di coloro che ricercano internamente attiva anche una ricerca esterna; vediamo quindi quali possono essere gli aspetti che la promuovono o la inibiscono.
 

Perché alcune persone cercano attivamente e altre no?

Già nel 1983, Sobol e Cardiff affermavano che gli active searcher si possono distinguere in due sottogruppi: coloro che cercano in maniera indipendente dall’atmosfera familiare e coloro che lo fanno quasi a voler colmare bisogni che non hanno trovato risposta nella famiglia adottiva (come la piena accettazione, l’appartenenza, la comprensione rispetto ai propri vissuti).

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