Cercare le proprie origini: un diritto, un bisogno, un dovere?

Negli studi più recenti ritroviamo interessi e interpretazioni che riprendono questa suddivisione, che possono essere raggruppati in due correnti di pensiero.

La prima fa riferimento al cosiddetto gap informativo e sostiene che si cerchi attivamente per colmare un vuoto di elementi; chi non cerca attivamente potrebbe non sentire il bisogno di trovare più informazioni oppure, pur possedendo questo desiderio, si troverebbe impossibilitato a farlo. Esistono infatti casi in cui non è possibile o è molto difficile cercare (le cosiddette “barriere” che ostacolano la ricerca), come per coloro che sono stati lasciati fuori dalle porte di un istituto o in luoghi pubblici nel Paese di origine, o come per le persone che in Italia non sono state riconosciute alla nascita e che, fino a pochi anni fa, non avevano diritto di accedere alle proprie origini [1]. Esistono anche altre barriere oggettive, come il non aver ancora raggiunto l’età prevista per l’accesso al fascicolo o l’indisponibilità a sostenere spese economiche talvolta impegnative. Anche la rete sociale della persona adottata gioca un ruolo centrale perché può supportare o inibire la ricerca: un partner/un genitore adottivo può offrire un importante sostegno emotivo all’individuo adottato (divenendo così “facilitatore” della ricerca) mentre, al contrario, quando le persone care all’individuo adottato si sentono in difficoltà con questo tema può generarsi in lui/lei un senso di colpa che frena la ricerca. Non vanno infine dimenticati i limiti e le barriere che hanno esclusivamente a che fare con il protagonista, come il non sentirsi pronti ad affrontare le possibili conseguenze della ricerca nonostante la curiosità e l’interesse. Questi elementi sono stati presi in considerazione da un interessante studio del gruppo di lavoro di Harold Grotevant, dell’Università del Minnesota, che ha messo in relazione i livelli di curiosità, i comportamenti di ricerca e la percezione di “barriere e facilitatori” (Wrobel et al., 2013). Dal coinvolgimento di 143 giovani adulti emerge la conferma che il gap informativo genera curiosità, ma che questa viene anche influenzata dalla presenza di barriere e facilitatori. La ricerca esterna, dunque, dipenderebbe sia dal desiderio di conoscere maggiormente, sia dagli elementi interni ed esterni che la promuovono o la limitano. Nella seconda corrente, invece, la ricerca verrebbe agita per colmare un vuoto non tanto informativo, quanto un vuoto posto altrove. Fra gli active searcher, in questo senso, si troverebbero con più frequenza le persone che sperimentano maggiore insicurezza in sé stessi o che percepiscono in maniera più negativa la relazione con i propri familiari adottivi (Sobol & Cardiff, 1983). Lo studio condotto da Wendy Tieman e il suo gruppo di ricerca (2008) nei Paesi Bassi con giovani adulti provenienti da adozione internazionale, ha mostrato che fra coloro che cercano attivamente (e in maniera persistente) sono più rappresentati gli adottati che percepiscono minore somiglianza e affinità psicologica/intellettuale con i genitori adottivi e coloro che valutano in maniera più negativa la relazione con loro. Pensiamo ad esempio a quei ragazzi e giovani adulti che si sentono diversi dai propri genitori adottivi in termini di talenti e atteggiamenti, di gestione delle emozioni, di interessi. Nonostante in questo studio la maggior parte dei “searchers” fosse ben adattata dal punto di vista psicologico, essi mostravano maggiori problemi (soprattutto di natura internalizzante) rispetto a chi non cercava attivamente. È stato possibile confrontare questa rilevazione con il benessere psicologico mostrato dagli stessi soggetti in passato, durante l’infanzia e l’adolescenza: ne è emerso che queste maggiori difficoltà psicologiche erano già presenti e la ricerca delle origini non è stata la causa dei problemi, quanto piuttosto un tentativo di rispondere ad alcune fatiche già esperite dall’individuo. Un’ipotesi simile si ritrova anche in uno studio canadese che ha mostrato una correlazione diretta fra insicurezza dell’attaccamento e spinta alla ricerca (Chavaux, 2003). Anche i costrutti della psicologia sociale possono avvalorare questa tesi, come quello dell’incertezza su di sé, che afferma che la sensazione di incoerenza e discontinuità possa essere colmata dal processo di identificazione con un gruppo (Hogg, 2017). Dal nostro studio condotto con persone adottate maggiorenni emerge infatti che la ricerca delle origini riduce il senso di incertezza sul sé anche attraverso l‘identificazione con altri adulti adottati che si sono incontrati in questo percorso (Ferrari et al., 2021). La ricerca esterna, pertanto, può essere innescata da bisogni di appartenenza, affinità e comprensione e, se adeguatamente accompagnata e sostenuta (dalla rete sociale del soggetto e da un professionista esperto), può costituire un’importante occasione riparativa.
 

Conclusioni

Qualunque sia il modello che assumiamo per interpretare la motivazione alla base della ricerca delle origini, serve ricordare la dimensione intima, privata e soggettiva di questo processo che, come tale, non si esaurisce in un unico momento, ma come un’onda può andare e venire nella vita delle persone adottate, con tempi dettati dai loro movimenti interni. Uno spazio privato che deve essere rispettato da tutti, genitori adottivi inclusi, che non possono né ostacolarlo, né forzarlo.

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