Gay Pride: Perché non si tratta solo di politica
New York, 1969, anni di fermento politico e intellettuale, di rottura con una società opprimente e patriarcale. Molte persone lesbiche, gay, bisessuali e transgender (LGBT) si trasferiscono a Greenwich Village, per sentirsi parte di una comunità e vivere apertamente la propria affettività e sessualità. Storie traumatiche di rifiuto familiare e terapie riparative atte a ristabilire un supposto ordine (etero)normativo sono all’ordine del giorno, finanche istituzionalizzate, e quel quartiere che ancora oggi è il simbolo indiscusso della voce delle minoranze sessuali e di genere, diviene un luogo di rivolta il 27 giugno. Prima di questa data, le incursioni della polizia newyorkese nei bar LGBT erano frequenti, quasi quotidiane, e atte a ristabilire, mediante dispositivi differenti da quelli della clinica psichiatrica del tempo, un supposto ordine (etero)normativo, silenziando una voce di massa che urlava bisogno di affermazione. Quel giorno la polizia irrompe bruscamente nel bar Stonewall Inn, a Christofer Street, ma le cose vanno diversamente. Quella voce urla “Gay Power”, probabilmente figlio del “Black Power”, slogan utilizzato dalle persone nere per rivendicare l’orgoglio razziale. Sylvia Rivera, donna transgender a cui è stata dedicata una strada di New York, lancia una bottiglia di vetro contro un poliziotto, dando l’avvio ai moti di Stonewall, passati alla storia come Rivolta di Stonewall. La polizia tenta di difendersi rinchiudendosi all’interno del bar. La comunità LGBT newyorkese riesce così ad utilizzare proprio quel luogo considerato perverso, peccaminoso e contro-natura come uno spazio per “contenere” la repressione violenta. È così che nasce il movimento di liberazione LGBT, con questa protesta-simbolo che viene ricordata annualmente nelle colorate parate dei Gay Pride in tutto il mondo.
Orgoglio: è questa la dimensione portante della parata, dimensione certamente impregnata di un potente valore politico trasformativo. I detrattori parlano di “ostentazione”: troppo colore, troppo caos, troppi corpi messi a nudo. Che bisogno c’è di creare scalpore? Non si può ottenere lo stesso effetto con comportamenti più discreti? È qui che la psicologia può aiutarci a comprendere perché la risposta è negativa e perché la discrezione non sortirebbe lo stesso effetto.
Partiamo dal termine “minoranza”. Far parte di una minoranza non vuol dire necessariamente esser parte di un gruppo meno numeroso di un altro. Non si tratta, quindi, di un concetto semplicemente statistico. Le persone che appartengono ad un gruppo minoritario sono coloro che, in virtù di determinate caratteristiche identitarie (etnia, religione, orientamento sessuale, identità di genere, disabilità, ecc.), vivono degli svantaggi rispetto ai membri di un gruppo sociale dominante. Di contro, c’è un’altissima probabilità di appartenere a identità minoritarie multiple (es., donna lesbica afro-americana) o di appartenere a un gruppo minoritario per alcune caratteristiche e a un gruppo dominante per altre (es., uomo gay caucasico). La questione della maggioranza o della minoranza è legata al potere, al capitale sociale e alla facilità di accesso a beni e servizi, tutte dimensioni che facilitano l’inserimento nei propri contesti di socializzazione. Queste differenze aumentano la probabilità di sperimentare disparità di salute, le cosiddette health disparities (Braveman, 2006). Se, fino agli anni ’90, predominava l’ipotesi della selezione sociale, secondo la quale erano le caratteristiche identitarie stesse o le situazioni sociali svantaggiate a produrre problemi di salute, si è poi inteso, grazie all’ipotesi della causazione sociale, che non sono le situazioni sociali difficili a spiegare i problemi di salute, ma è lo stress che tali situazioni comportano. È in questo contesto che viene sviluppato il framework del minority stress (Meyer, 2003), secondo cui le persone LGBT vivrebbero uno stress cronico e socialmente basato a causa dello status identitario minoritario a cui appartengono. Lo stress, dunque, prodotto dallo status stigmatizzato medierebbe il rapporto tra le strutture sociali che regolano le relazioni (ad es., l’eteronormatività, ovvero la credenza che l’eterosessualità sia la norma sociale di riferimento) e la salute. Ecco perché tutte le ricerche scientifiche in ambito psico-sociale confermano che la popolazione LGBT ha più problemi di salute della popolazione eterosessuale/cisgender. E quando parliamo di salute, non ci riferiamo solo alla salute mentale, ma anche quella fisica. Si è visto, ad esempio, che le persone LGBT riportano tassi più elevati di cancro, asma, malattie cardiovascolari e obesità rispetto alla popolazione eterosessuale/cisgender e che questo è dovuto all’effetto del minority stress (ad es., Conron et al., 2010). Ciononostante, come dimostrano già i moti di Stonewall, la popolazione LGBT è resiliente, in grado cioè di far fronte allo stress cronico grazie all’utilizzo di alcune dimensioni psico-sociali che si muovono sia sull’asse comunitario che individuale. E l’orgoglio identitario rappresenta proprio uno di questi fattori protettivi! Non si nasce orgogliosi verso la propria identità. L’orgoglio è frutto di un processo interno di accettazione identitaria che non può che passare per il dolore e la vergogna causati dal percepirsi come non conformi alle norme sociali dominanti. Ciò vuol dire che l’appartenenza a identità maggioritarie non può produrre orgoglio identitario, semplicemente perché le identità maggioritarie e avvantaggiate si sviluppano in maniera più silente, essendo normative e acriticamente accettate. Non è un caso che la maggior parte degli strumenti psicometrici volti a misurare i livelli di stigma e stress nelle persone LGBT misurino anche i livelli di orgoglio identitario o di affermazione identitaria, quali dimensioni in grado di attutire gli effetti negativi che stigma e stress hanno sulla salute (ad es., Testa et al., 2015). L’orgoglio, allora, rappresenta una risposta resiliente allo svantaggio istituzionalizzato causato dallo status sociale stigmatizzato. E questo ha bisogno di colori, caos e corpi in marcia: tutti dispositivi atti a reimpossessarsi di ciò di cui la cultura normativa, invece, priva.
Bibliografia
Braveman P. (2006). Health disparities and health equity: Concepts and measurement. Annual Review of Public Health, 27, pp. 167–94.
Conron, K. J., Mimiaga, M. J., & Landers, S. J. (2010). A population-based study of sexual orientation identity and gender differences in adult health. American Journal of Public Health, 100(10), 1953–1960.
Meyer, I. H. (2003). Prejudice, social stress, and mental health in lesbian, gay, and bisexual populations: Conceptual issues and research evidence. Psychological Bullettin, 129(5): 674–697.
Testa, R. J., Habarth, J., Peta, J., Balsam, K., & Bockting, W. (2015). Development of the Gender Minority Stress and Resilience Measure. Psychology of Sexual Orientation and Gender Diversity, 2(1), 65–77.
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