Works. Classi sociali e disuguaglianze nelle pagine di Vitaliano Trevisan
Forse nessuno dei libri che ho letto negli ultimi anni è ricco di rimandi psicosociali come Works di Vitaliano Trevisan [1]. Works parla dei lavori fatti dall’autore nella sua “prima vita”. Emerge, dal libro, la constatazione, che si fa accettazione, di un universo disuguale, in cui gli individui nascono all’interno di una classe portandone i segni per sempre:
“Mi viene in mente mio padre, il poliziotto Arturo, e la sua divisa, sempre impeccabile; e mio nonno, la dignità con cui indossava il suo vestito da festa. Assurdità che sempre mi ritornano. L’origine è un vestito che uno non smette mai.” (p. 532)
Il vestito come segnale di classe. Una frase, che è puro Bourdieu. Molti passi di Works richiamano infatti concetti di Bourdieu, primo fra tutti quello di habitus, l’insieme di disposizioni, aspettative e valutazioni, acquisite e durature, che influenzano le pratiche, le percezioni, gli atteggiamenti che i membri di una classe considerano normali e appropriati. L’habitus comprende i valori, le norme, le aspettative, i privilegi, in gran parte impliciti, che derivano da una data condizione materiale. Bourdieu sostiene che l’accesso differenziato sulla base della classe sociale alle risorse e alle opportunità fa sì che i membri di una classe si comportino in un certo modo, interpretino in modo simile il loro posto nella società e il funzionamento del mondo e adeguino, in accordo a questo, le loro aspettative per il futuro [2]. Secondo Bourdieu, le origini di classe si iscrivono nel corpo delle persone, ne influenzano la postura, l’andatura, il comportamento. I corpi sono classi sociali incorporate, esattamente come nota Trevisan quando descrive l’aspetto dei lattonieri:
“I corpi dei miei compagni, tutti molto atletici, e le loro movenze, decise, ma sempre molto fluide, che non tradivano alcuna rigidità di giunture, lo confermavano (…) il lavoro fa l’uomo, e la donna, anche fisicamente, molto più di quanto comunemente si pensi” (p. 407)
Works racconta i “ventisei fottuti anni di lavoro dipendente” come geometra, disegnatore tecnico, muratore, lattoniere, portiere di notte, illuminando zone di realtà trascurate dalla narrazione mediatica, ma frequentate, recentemente, anche dalla psicologia sociale [3]. Vediamo un ritratto di classe, quello dei giovani operai:
“appena X lesse i testi, subito immaginò i tre operai-magazzinieri in tuta blu – alla Cipputti, (…). Non fu facile spiegargli che questi giovani “operai”, che rifiutavano anche solo l’idea di indossare le scarpe antinfortunistica fornite dalla ditta perché gli facevano schifo esteticamente, che si facevano tutti almeno un paio di lampade la settimana, che si indebitavano per comprarsi una Golf Tdi del cazzo, o per passare un paio di settimane in uno spermodromo caraibico, che passavano i fine-settimana tra discoteche e after hours, spesso e volentieri impasticcati, la cui stragrande maggioranza si professava e votava a destra, ebbene, come dicevo, non fu facile spiegare a X quanto questi operai fossero irrimediabilmente estranei a quella sua immagine così arcaica da potersi considerare parte non dell’archeologia, ma della paleontologia industriale.” (p. 502)
I giovani operai non percepiscono però un’identità collettiva. I processi di frammentazione hanno minato appartenenze e difese:
“mi limitavo a osservare come la frammentazione della classe operaia fosse in fondo qualcosa di estremamente concreto. Eppure, la cosa che mano a mano, conoscendoli, più mi stupì è quanto avessero in comune: tutti di famiglia operaia, tutti fermi alla terza media, o al massimo un biennio di professionali, tutti provenienti dagli stessi due storici quartieri operai della città” (pp. 541)
E tale processo è collegato ai continui incidenti sul lavoro:
“Eccesso di sicurezza; abitudine al rischio, e conseguente sottovalutazione dello stesso; la testa altrove – alle ferie che stanno per arrivare, o alla pensione; ma al di là delle questioni “personali”, di fretta, sempre e comunque, con carichi di lavoro eccessivi e scarsa, o più spesso, anzi quasi sempre, come da mia esperienza, non solo come lattoniere, ma come parte dell’ambiente, “totale inosservanza di ogni norma di prevenzione antinfortunistica”; sapendo tutto questo, se il numero di morti e feriti sul lavoro in Italia sempre mi stupisce, è per difetto, mai per eccesso.” (pp. 430-431)
Le descrizioni della classe operaia e della sua mancata coscienza di classe richiamano alla mente i lavori sulla giustificazione del sistema [4], anche se i compagni di Trevisan, più che giustificare il sistema, lo danno per scontato, come qualcosa di inevitabile e inamovibile, come se non esistesse la possibilità di un’alternativa cognitiva. Di conseguenza, le disuguaglianze sociali sono percepite eterne:
“Sembrava sincero. E poi è così: da dipendente, uno non può certo pretendere di cambiare la persona da cui dipende.” (p. 149)
“Nessuna meraviglia, va spesso così nella vita, e un proletario, nel momento in cui dà retta a un borghese, dovrebbe sempre tenere ben presente che il punto di non ritorno di quest’ultimo è sempre molto più in là del suo.” (p. 363)
Un quadro sotteso da un’emozione poco studiata dagli psicologi sociali, l’odio di classe:
“L’odio è insieme troppo e troppo poco. Inutile cercare di spiegare. Forse potrebbe capirmi uno della mia razza (leggi estrazione sociale), ma quelli della mia razza raramente leggono!” (p. 193)
“Sempre profondamente odiati. Odio di classe. Niente di personale” (pp. 515)
Esistono però in Works anche momenti meno cupi, esemplificati dal capitolo sui lattonieri. Bellissima la digressione sulla vita quotidiana dei lattonieri, che si sentono gruppo, vivono un’allegra companionship maschile, basata su amicizia, solidarietà, sull’orgoglio derivante da un’identità sociale soddisfacente [5]. In questo mondo in cui si sfidano ogni giorno i pericoli del lavoro a grandi altezze, Trevisan vive l’appartenenza a una comunità che lo accoglie senza chiedergli niente, con semplicità e calore, percependo il benessere psicologico creato da un’identità sociale positiva:
“Ebbene qui ero stato subito accettato e, a parte lavorare, non mi era stato chiesto nulla. Ma quel che per me era assolutamente nuovo era la sensazione di far parte di un gruppo, di essere tra i miei compagni di lavoro; non tra semplici colleghi, che è cosa ben diversa, ma compagni, ossia, sgravando la parola di tutto il suo peso politico – ammesso che ne abbia ancora, cosa di cui dubito – persone con cui condividevo sudore, fatica, rischi e soddisfazioni, ma soprattutto persone di cui lassù, al di là di tutto, potevo fidarmi. E loro di me.” (pp. 418-419)
Bibliografia
[1] Vitaliano Trevisan (2016). Works. Torino: Einaudi.
[2] Bourdieu, P. (1992). Risposte. Per un’antropologia riflessiva. Torino: Bollati Borringhieri. Bourdieu, P. (2015). Bourdieu, P. (2005). Questa non è un’autobiografia. Elementi per un’autoanalisi. Milano: Feltrinelli.
[3] Chiara Volpato (2019). Le radici psicologiche della disuguaglianza. Roma-Bari: Laterza.
[4] Jost, J. T. (2017). Working class conservatorism: A system-justification perspective. Current Opinion in Psychology, 18, 73-78.
[5] Tajfel, H. (1985). Gruppi umani e categorie sociali. Bologna: Il Mulino.
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