V13 di Emmanuel Carrère

Non avrei probabilmente mai letto questo libro se non mi fosse stato regalato, l’argomento mi pareva troppo duro da affrontare. Invece si è rivelato una lettura importante, che è rimasta a lungo nei miei pensieri facendomi riflettere. Il titolo si riferisce a Venerdì 13 novembre 2015, giorno in cui Parigi è stato teatro degli attentati terroristici del Bataclan, dello Stade de France e di alcuni bistrot, attentati che hanno provocato centotrenta morti e trecentocinquanta feriti (Carrère, 2022). Il libro consiste nel resoconto delle udienze del processo ai complici e all’unico sopravvissuto tra gli autori del massacro, processo a cui l’autore ha assistito per una decina di mesi e di cui ha riferito in articoli settimanali, rielaborati poi nel presente volume. Come dicevo, l’argomento mi destava angoscia e non sapevo se sarei riuscita ad affrontarlo. Invece fin dalla prima pagina la scrittura di Emmanuel Carrère mi ha come sempre catturato e ho letto il libro tutto d’un fiato, affascinata da mille implicazioni, sociali, antropologiche, culturali, morali.

Il racconto si apre l’8 settembre 2021 quando all’Ile de la Cité, nel pieno centro di Parigi, nel tribunale sito tra la Sainte Chapelle e il quai des Orfèvres, in un’aula appositamente costruita, inizia il processo. Nella prima parte – intitolata le vittime - sono presentate le parti civili, “feriti, congiunti, persone offese”; parlano qui i sopravvissuti o i parenti degli uccisi, le cui testimonianze fanno vivere le scene orribili e strazianti dell’attacco, i vissuti di chi lo ha subito, le conseguenze devastanti subite da chi è rimasto in vita.
 
Carrère narra in prima persona, parla dei suoi stati d’animo, delle difficoltà di ascoltare racconti emotivamente così pesanti, dei disagi psicologici provocati dall’ascolto - insonnia, incubi, stati di irritazione, scoppi di pianto. Per ragioni anagrafiche, più che con le giovani vittime, l’autore è portato a identificarsi con i genitori che intervengono al processo. Toccante è il capitolo in cui racconta la testimonianza di Nadia Montagner, madre di Lamia, uccisa in un bistrot di boulevard Voltaire, a centocinquanta metri da casa; Nadia continua a non darsi ragione di quanto successo: “Pensare che quelli che l’hanno uccisa avevano la sua età. L’età di tutti loro, tra i venticinque e i trent’anni. Che sono stati accompagnati a scuola tenendoli per mano, come lei accompagnava Lamia, tenendola per mano. Erano dei bambini che venivano tenuti per mano.” Ma coraggiosamente Nadia conclude il suo intervento dicendo “Adesso, avvocati della difesa, fate il vostro lavoro. Fatelo bene. Lo dico sinceramente.” Altrettanto toccante è il capitolo in cui vengono confrontate le testimonianze di due padri. Il primo, Georges Salines, medico in pensione, la cui figlia Lola è stata uccisa al Bataclan, è l’autore di un libro scritto in memoria della figlia e, poi, di un secondo composto a quattro mani con Azdyne Amimour, padre di uno dei terroristi fattosi esplodere sul palco del Bataclan; questa collaborazione, incomprensibile per molti, è dovuta al fatto che Salines crede che vada ascoltata la sofferenza di tutti i genitori e che non si debba reagire alla barbarie con la barbarie, ma con metodi quali quello della giustizia riparativa (Amimour & Salines, 2020; Salines, 2016). Il secondo, Patrick Jardin, rimpiange invece la pena di morte e così esprime la sua sofferenza: “Mi accusano di essere pieno di odio ed è vero, signor presidente, provo odio, e la cosa che mi fa più schifo sono i genitori delle vittime che non provano odio. Quello che ha scritto un libro con il padre di uno dei terroristi mi fa vomitare.” Aggiungendo poi: “Dicono che io sono di estrema destra, e forse sono di estrema destra, non so. Ma non è che mia figlia sia meno morta perché io sono di estrema destra.” Nelle parole di Carrère, la testimonianza è descritta come “un fiotto di arcaico furore”, che è necessario però accettare e riconoscere per poterlo superare.
 
La seconda parte del libro si sofferma sugli imputati, prima di tutti Salah Abdeslam, l’unico terrorista sopravvissuto, e su coloro che si sono resi complici aiutando i terroristi, con una digressione su Molenbeek, il quartiere di Bruxelles da cui quasi tutti provenivano. Questa parte rende concreto e attuale il concetto di banalità del male, proposto da Hanna Arendt: i terroristi, ma soprattutto i loro complici appaiono infatti personaggi mediocri, che hanno intrapreso la strada del terrorismo per insoddisfazione, inerzia, conformismo con il gruppo dei pari, incapacità di comprendere a pieno le implicazioni delle scelte compiute.
 
La terza parte descrive la corte, i giurati, gli avvocati, i pubblici ministeri, i giudici. Un insieme straordinario di persone che indica, con l’impeccabile rigore dei comportamenti e delle difficili decisioni prese, come la Francia abbia saputo fare i conti con quanto successo in nome del diritto perché “imparare a sostituire la legge del taglione con il diritto, la vendetta con la giustizia: questo è ciò che chiamiamo “civiltà”.
 
Spero di essere riuscita a trasmettere l’idea che questo è un libro che va letto da tutti noi, ma principalmente dagli psicologi sociali, perché contiene pagine di straordinaria efficacia che ci fanno riflettere sugli abissi del nostro presente, ma anche sulle modalità civili con cui possiamo e dobbiamo affrontarli per non rischiare di perdere la nostra umanità, come ci insegna Antoine Leiris, la cui giovane moglie è stata uccisa al Bataclan, che ha scritto un libro dal titolo potente: “Non avrete il mio odio” (Leiris, 2016).
 

Bibliografia

Amimour, A. & Salines, G. (2020). Il nous reste les mots. Paris: Robert Laffont.
 
Carrère, E. (2022). V13. Cronaca giudiziaria. Milano: Adelphi.
 
Leiris, A. (2016). Non avrete il mio odio. Milano: Corbaccio.
 
Salines, G. (2016). L’Indicible de A à Z. Paris: Seuil.