Non possiamo pensare in modo individuale, dobbiamo pensare in modo collettivo

Il modo in cui trattiamo il coronavirus è profondamente legato al modo in cui pensiamo alla società e all'individuo. E il problema è che corriamo il pericolo di sbagliare sotto tutti gli aspetti, con la conseguenza che saremo meno efficaci nel contenere il virus. Non c'è nulla di nuovo nel fatto che gli esseri umani sbagliano. Ma questa volta sono in gioco delle vite.

L'ipotesi di buon senso, che si riflette nel consiglio che viene dato alla cittadinanza, è che per cambiare comportamento è necessario fare appello agli interessi individuali. Per essere sicuri che le persone seguano le regole, dovremmo in quest’ottica personalizzare il messaggio: "cambia il tuo comportamento in modo da sopravvivere". Ma è proprio sicuro che questa strategia ha senso? La risposta è no. È proprio la cosa sbagliata da fare. Ecco perché.

A livello pratico, le persone meno a rischio (giovani, in forma, in salute) potrebbero ritenere che non valga la pena modificare le proprie abitudini e quindi potrebbero continuare ad agire in modo tale da mettere a rischio di infezione i più vulnerabili (persone anziane e malate). Inoltre, a livello morale, sentiamo di avere il diritto di ignorare i pericoli per noi stessi e anzi pensiamo di meritare un po’ di gloria nell’assumerci dei rischi. Anche se può apparire sciocco, accade di frequente che le persone ignorino i consigli di sicurezza.

Per prima cosa, se inquadriamo le cose individualmente - prenditi cura di te! – incontreremo sicuramente delle difficoltà quando si tratta di convincere le persone a comportarsi in un modo che è scomodo per se stesse ma è vantaggioso per le altre (auto-quarantena volontaria, ad esempio). Lo stesso vale quando si tratta di distribuire risorse scarse (tempo dei medici, farmaci, gel per le mani ecc.). Se diamo la priorità all'individuo, vincerà chi è più forte piuttosto che chi ha più bisogno. In entrambi i casi, il perseguimento dell'interesse personale è inefficiente, mina la risposta generale alla crisi e il rischio elevato è che molte altre persone muoiano.

La nostra ricerca sulle emergenze (Drury et al., 2019) mostra che è proprio quando le persone smettono di pensare in termini di "io" e iniziano a pensare in termini di "noi" - più tecnicamente, quando sviluppano un senso di identità sociale condivisa - che iniziano a coordinarsi, si sostengono a vicenda e assicurano che chi è in una condizione di maggior bisogno ottenga il massimo aiuto. A volte questo senso di identità condivisa emerge dal fatto stesso di fare l’esperienza di una minaccia comune. Ma anche la comunicazione è importante. Quando una minaccia è inquadrata in termini di gruppo anziché individuali, la risposta delle persone è più solida ed efficace (Carter et al., 2013).

Quindi, diamo un'occhiata di nuovo alla reazione di fronte al coronavirus. Invece di personalizzare il problema, dobbiamo renderlo collettivo. Il problema chiave non è tanto "sopravviverò" quanto "come possiamo superarlo". L'enfasi deve essere posta su come possiamo agire per garantire che i più vulnerabili tra noi siano protetti e che le perdite per la comunità siano ridotte al minimo – dopo tutto, se guardiamo le cose da una prospettiva collettiva, una perdita di una persona è una perdita per tutti.

Se la questione è inquadrata in questo modo, diventa importante per tutte e tutti lavarsi le mani e coprire la tosse a causa delle implicazioni per gli altri e per sé. Inoltre, mentre potremmo avere il diritto di correre dei rischi per noi stessi, abbiamo l'obbligo morale di evitare di imporre rischi agli altri (specialmente chi è vulnerabile e collegato/a a noi – basti pensare a come cambia la nostra guida quando abbiamo bambine e bambini in macchina). Entrambe queste considerazioni sono potenti motivatori dell'azione (Reicher & Haslam, 2009).

Inoltre, una volta che determinate azioni diventano questioni comuni soggette a norme collettive, la loro violazione provoca una pressione collettiva. Il modo migliore per impedire alle persone di uscire quando si sentono male o di richiedere risorse di cui hanno bisogno meno degli altri non è tanto quello di cambiare le motivazioni interne, quanto quello di mobilitare la disapprovazione esterna. La persona febbricitante che va al lavoro, la persona giovane in forma che chiede l'accesso al pronto soccorso sarà dissuasa più efficacemente quando la collettività convergerà nel ritenere questi comportamenti come inaccettabili.

Una volta resa collettiva la risposta al coronavirus, e una volta create norme chiare su come massimizzare il benessere della comunità, allora saremo meno dipendenti da forze esterne come la polizia per regolare i comportamenti, ad esempio rendendo chiaro chi ha la priorità nell'ottenere assistenza medica, con tutto il rischio di scontri che ciò comporta. A quel punto, sarà la stessa collettività a limitare i potenziali devianti. Come sempre, la migliore regolamentazione è l'autoregolamentazione collettiva (Reicher et al., 2004).

La difficoltà di questo approccio, ovviamente, è che è molto in contrasto con il buon senso psicologico contemporaneo, che insiste sul fatto che il comportamento è governato dall'interesse personale individuale. È anche in contrasto con i cambiamenti sociali che minano incessantemente le comunità e le collettività, cercano di trasformare i gruppi sociali in singoli consumatori e considerano ogni relazione come uno scambio interpersonale basato sul mercato. In questo senso, forse il coronavirus è un potente campanello d'allarme per svegliarci.

Dobbiamo cambiare il modo in cui guardiamo all'epidemia.

Dobbiamo cambiare il modo in cui vediamo le persone e la società.

Dobbiamo pensare in modo collettivo o finirà male.

 

 

Traduzione di Maria Giuseppina Pacilli

Revisione di Massimiliano Scopelliti

Questo articolo è stato tradotto dalla versione originale pubblicata qui http://thepsychologist.bps.org.uk from the British Psychological Society

References

Carter, H., Drury, J., Rubin, G., Williams, R. and Amlôt, R. (2013), "The effect of communication during mass decontamination", Disaster Prevention and Management, Vol. 22 No. 2, pp. 132-147. https://doi.org/10.1108/09653561311325280

Drury, J., & Alfadhli, K. (2019). Social identity, emergencies and disasters. In R. Williams, S. Bailey, B. Kamaldeep, S. A. Haslam, C. Haslam, V. Kemp, & D. Maughan (Eds). Social scaffolding: Applying the lessons of contemporary social science to health, public mental health and healthcare. London: Royal College of Psychiatrists.

Drury, J., Carter, H., Cocking, C., Ntontis, E., Tekin Guven, S., & Amlôt, R. (2019). Facilitating collective psychosocial resilience in the public in emergencies: Twelve recommendations based on the social identity approach. Frontiers in Public Health, 7 (141) doi: 10.3389/fpubh.2019.00141

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Drury, J., Cocking, C., & Reicher, S. (2009). The nature of collective resilience: Survivor reactions to the 2005 London bombings. International Journal of Mass Emergencies and Disasters, 27(1), 66-95.

Reicher, S. D., & Haslam, S. A. (2009). Beyond help: a social psychology of social solidarity and social cohesion. In M. Snyder, & S. Sturmer (Eds.), The Psychology of Prosocical Behaviour Oxford: Wiley-Blackwell. 

Reicher, S., Stott, C., Cronin, P. and Adang, O. (2004), "An integrated approach to crowd psychology and public order policing", Policing: An International Journal, Vol. 27 No. 4, pp. 558-572. https://doi.org/10.1108/13639510410566271

Stott, C., Adang, O., Livingstone, A., & Schreiber, M. (2008). Tackling football hooliganism: A quantitative study of public order, policing and crowd psychology. Psychology, Public Policy, and Law, 14(2), 115-141. doi:10.1037/a0013419

 Vilas, X., & Sabucedo, J. M. (2012). Moral obligation: A forgotten dimension in the analysis of collective action. Revista de Psicología Social, 27(3), 369-375.

 

 

 

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