Il racconto di un muro di Nasser Abu Srour

Cercavo un titolo per il pezzo di dicembre e naturalmente pensavo a un racconto natalizio. Ma il Natale ricorda una nascita avvenuta a Betlemme duemila anni fa e non può non far precipitare il pensiero sulla tragedia odierna cui assistiamo impotenti e sgomenti. Subito ho pensato a un libro acquistato di recente nel tentativo di capire quello che sta succedendo, Il racconto di un muro. L’autore è Nasser Abu Srour, poeta e scrittore palestinese, anche lui nato e cresciuto a Betlemme, in un campo profughi, arrestato nel 1993 con l’accusa di aver partecipato alla lotta del suo popolo contro l’invasione israeliana e condannato all’ergastolo (Abu Srour, 2024). Il romanzo, scritto nel carcere nel quale tuttora si trova, è autobiografico, narra la sua vita dall’infanzia alla partecipazione all’Intifada alla lunga carcerazione. Possiamo farci un’idea della sua scrittura dalla descrizione della sua venuta al mondo: “Durante la fase dell’impotenza e della connivenza sono arrivato io, all’interno di una famiglia marginale che viveva in un luogo marginale gremito di individui marginali di cui parlava solo gente che nessuno ascoltava o che non aveva voce e, come ogni bambino marginale, ho cominciato a esplorare i confini della mia marginalità.” Più avanti: “Avevamo bisogno di una generazione che si sollevasse in un’intifada, di un autunno che facesse cadere tutte le foglie di fico che coprivano le nostre nudità così da metterci di fronte allo specchio rotto che avevamo dentro, avevamo bisogno di una generazione che ci desse il nome più bello che potessimo mai avere: la Generazione delle pietre.”
Nella prima parte del libro la storia personale dello scrittore riflette la vicenda del popolo palestinese, dipinto con accenni inusuali, poetici, che rivelano aspetti poco conosciuti, come la forza delle donne le quali, guidate come la madre dell’autore da un “congenito istinto femminista”, hanno saputo “vedere l’impotenza dei propri mariti” e si sono inserite “nel mercato del lavoro fregandosene delle chiacchiere sdegnate che accompagnavano la loro piccola rivoluzione.” Potenti le pagine che descrivono la solitudine vissuta dai profughi del campo, estraniati da Betlemme, “una città che si è sbarazzata della nostra narrazione dando del bugiardo a chiunque parlasse di espulsione o di esilio forzoso, che ha fatto piovere sul campo un delirio di accuse, che ha minimizzato le sue sofferenze, che gli ha strappato via le sue molteplici identità, che lo ha sommerso con ogni sinonimo fornito dal dizionario per esprimere concetti come traditore, fuggitivo, emigrante, rifugiato, straniero, espulso, fuoriuscito e altri sostantivi ancora…; una città che, infine, ha relegato il campo profughi in un tempo e in un luogo paralleli dove, con calma e metodo, ha iniziato a tessere i fili del suo stesso estraniamento…” Potenti le pagine che descrivono l’antipatia in carcere tra i militanti della prima e della seconda Intifada, guidati i primi da una narrazione nazionalista, in cui “la terra era uno spazio politico e culturale che svolgeva una funzione unificante per tutti i palestinesi”,  e i secondi, invece, da una narrazione imperniata sull’islamismo. Nella seconda parte del libro, intitolata “Io, il mio cuore e uno spazio angusto” Nasser Abu Srour racconta la sua storia d’amore con una giovane avvocata, Nanna, un amore al tempo stesso prezioso e senza futuro.
Dopo l’arresto, le torture, l’isolamento, il muro diventa il solo possibile interlocutore di Nasser; davanti a esso “la mia reclusione si è mutata in un invito a cercare possibili risposte”. Le pagine sui lunghi anni passati a discutere con il muro sono dense, dolenti, “stare in carcere, come annegare, è un’esperienza individuale e solitaria, ognuno la vive a modo suo e niente ti prepara al respiro che si spezza tranne il momento in cui si spezza.” Fuori del carcere lo strazio delle famiglie: “C’erano notizie, storie piene di struggimenti, di rimproveri e di lunghe assenze, c’erano disperazione e un’immutabile angoscia, c’erano vestiti per quattro stagioni e molti stenti…”, parole che fanno tornare in mente le descrizioni di Gwénola Ricordeau sulle donne che in tutto il mondo attendono davanti ai cancelli delle carceri e, più in generale, sul rapporto tra donne, coscienza femminista e prigione (Ricorderau, 2022). 
Le pagine sulla vita in carcere, da quelle che descrivono senza compiacimenti e sterili atteggiamenti di vittimizzazione le violenze subite a quelle che provano a trasmettere al lettore le strategie di resistenza poste in atto dai prigionieri, mi hanno fatto pensare a come in psicologia sociale si siano affievoliti i gloriosi tentativi degli anni Cinquanta e Sessanta dello scorso secolo miranti a spiegare e comprendere le grandi violenze istituzionali. Già Moscovici (1989) attribuiva quella che definiva la crescente marginalizzazione della psicologia sociale all’irrilevanza di parte della sua ricerca, votata a indagare la vita quotidiana della classe media vista dalla prospettiva di quelli che oggi indichiamo come WEIRD, piuttosto che allo studio dei grandi temi del conflitto tra individuo e società, citando un’osservazione di Asch: “Il pericolo di ignorare materie rilevanti è che materie meno rilevanti usurpano il loro posto.” (Moscovici, 1989). Esistono nella nostra disciplina lavori che si collegano alla grande tradizione novecentesca, penso prima di tutto agli studi sui fenomeni di deumanizzazione, ma sono ancora troppo pochi i lavori che affrontano fenomeni di estrema attualità, quali la tortura e l’annientamento dell’umano (Volpato, 2017).
 

Bibliografia 

 
Abu Srour, N. (2024). Il racconto di un muro. Milano: Feltrinelli. Il volume è mirabilmente tradotto dall’arabo da Elisabetta Bartuli, grande conoscitrice delle letterature del Medio Oriente.
 
Moscovici, S. (1989). Preconditions for explanation in social psychology. European Journal of Social Psychology, 19(5), 407-430.
 
Ricorderau, G. (2022). Per tutte quante. Donne contro la prigione. Roma: Armando. Il volume contiene anche una prefazione della curatrice, Silvia Buzzelli, e due piccoli saggi, il primo, “Donne e carcere. Piccole riflessioni psicosociali” di Chiara Volpato, il secondo, “La questione penitenziaria tra abolizionismo penale e lotte femministe” di Silvia Buzzelli.
 
Volpato, C. (2017). Distogliere lo sguardo. Processi psicosociali di accettazione della tortura. Minority Reports. Cultural Disability Studies, 4, 263-286.