Esilio di Enzo Bettiza. Le parole delle emozioni

La letteratura psicosociale sulle emozioni mi attira soprattutto quando sottolinea gli aspetti e le diversità culturali; mi affascina sapere che in alcune culture esistono emozioni che in altre culture sono sconosciute o non riconosciute come tali. Come si sa, ogni sistema culturale sviluppa una propria sensibilità emotiva e questo fa sì che di fronte a situazioni simili si possano innescare emozioni differenti. Libri e manuali sono ricchi di descrizioni di emozioni sconosciute alla cultura occidentale, sui quali mi sono spesso soffermata immaginando scenari lontani e sensazioni o affetti particolari. Per esempio, tra le classi povere dell’Asia meridionale può verificarsi uno stato emotivo chiamato amok, che genera una sorta di esaltazione per cui la persona che lo prova corre per il villaggio aggredendo ogni cosa vivente, con conclusioni spesso tragiche. Nelle Filippine, invece, i Llongot conoscono un’emozione chiamata liget, simile alla rabbia provata quando si sta per attaccare un nemico, ma che si riferisce anche all’energia profusa in un lavoro impegnativo, alla passione provata durante un rapporto sessuale, all’impressione di essere sopraffatti in un senso di stordimento e confusione. In Giappone amae indica uno stato di piacevole dipendenza, ricercato e desiderato nelle relazioni interpersonali, in cui nell’affidarsi alla benevolenza dell’altro ci si sente protetti e curati come nell’abbraccio materno durante l’infanzia. A Giava si parla di bingung per indicare uno stato di confusione, turbamento, sorpresa, in cui si smarrisce il senso della direzione, e di iklas, per indicare l’esperienza di una frustrazione piacevole. A Bali, invece, si usa il termine tekajut per indicare un’emozione spiacevole e sconvolgente provocata da qualcosa di inatteso, ma non improvviso. Per i Baining della Nuova Guinea awumbuk indica l’insieme di tristezza, apatia, stanchezza e noia dovuto alla partenza di un visitatore, mentre per gli Ifaluk della Micronesia nguch comprende i sentimenti di noia, seccatura, circospezione e apatia suscitati dal caldo (Anolli, 2004). Leggendo il bellissimo libro di Enzo Bettiza (1996), Esilio, sono stata affascinata dall’objesnost, che, come spiegato dall’autore, è una “parola densa di significato ma intraducibile, che in italiano si può esprimere suppergiù solo con un lungo concetto: l’indifferenza ignara e distratta di chi possiede molto per chi possiede poco o nulla. Tipico e storico caso di objesnost regale fu quello di Maria Antonietta”. L’ objesnost non è l’unico concetto che mi ha colpito in Esilio, un testo autobiografico, che racconta la prima parte della vita di Enzo Bettiza, giornalista e scrittore, nato a Spalato nel 1927 da una famiglia della buona borghesia, costretta a trasferirsi in Italia alla fine della seconda guerra mondiale, in seguito alla vittoria di Tito. Nella famiglia dell’autore convivevano anime diverse: il padre era un dalmata italiano; la madre una donna di origine montenegrina, nata nell’isola di Brazza; la balia, personaggio centrale nell’infanzia del protagonista, una morlacca di etnia serba. Così Bettiza descrive in Esilio il suo animo mitteleuropeo: “Segnato da iniziali influssi serbi nell’infanzia, poi italiani nella pubertà, quindi croati nell’adolescenza, ai quali dovevano aggiungersi più tardi innesti germanici e russi, ho lasciato concrescere poco per volta in me multiformi radici culturali europee; non ho mai dato molto spazio alla crescita di una specifica radice nazionale.” Il libro, ricco di evocazioni, racconti, descrizioni, spunti, suggerimenti (deliziosi quelli culinari), descrive una Dalmazia perduta, affascinante incrocio di culture diverse, irriconoscibile nell’attuale nazionalismo croato, che, come tutti i nazionalismi, l’autore detestava, arrivando a parlare di “un nesso fatale e losco tra la nazionalità e la bestialità”. Un altro termine, che ho trovato nelle pagine di Esilio, definisce chi può provocare un’emozione tremenda e negativa: dusmani. Secondo Bettiza si tratta di “un concetto indefinibile, tutto slavo e balcanico, eccentrico, intriso di doppi sensi sciamanici e tribali, senza riscontro preciso in altre lingue europee tranne che in quella russa. Il dusman è qualcosa di meno e di più del nemico frontale che ci assale a viso scoperto. E’ un nemico latente, invisibile, sotterraneo, avvolto nella tenebra; è colui che brama farci del male senza dichiararci guerra aperta: colui che ordisce la trama del malocchio e della disgrazia alle nostre spalle e dal quale è perciò difficilissimo difendersi. Per i soldati russi, come scriveva la Pravda usando la stessa parola, i guerriglieri afghani erano dusmani più che veri nemici. Per i serbi sono oggi dusmani gli slavi musulmani della Bosnia. Per mia madre era fatta di dusmani la maggioranza italiana della popolazione di Zara.” Recentemente ho incontrato un libro molto diverso da quello di Bettiza, ma nel quale ho colto alcune analogie con Esilio, dato che anche questo racconta di un allontanamento in qualche modo forzato dalla patria slava. Si tratta di L’arte della cucina sovietica (von Bemzer, 2013), nel quale, tra mille altre cose, è descritto un sentimento profondo capace di intossicare l’anima e rendere la vita intollerabile. Ecco come l’autrice lo racconta: “La vita, sospettava, non era ‘bella in tutto e per tutto’. Anziché di grande felicità sovietica, il cuore di mia mamma era spesso colmo di toska, una parola che non ha un equivalente nella nostra nuova lingua: ‘A livello più profondo e penoso, - spiega Vladimir Nabokov, - la toska è una sensazione di grande angustia spirituale… A livelli meno morbosi è un sordo dolore dell’anima’.” Come questi, ci sono molti altri esempi di parole non immediatamente traducibili dalle lingue slave, che esprimono un mondo di emozioni a noi sconosciute, che la letteratura ci permette però di intuire. In questi giorni difficili, mi sono chiesta se la nostra profonda ignoranza non costituisca uno dei motivi della secolare difficoltà di comprensione e comunicazione tra mondo occidentale e mondo slavo, russo in particolare.
 

Bibliografia

 
Anolli, L. (2004). Psicologia della cultura. Bologna: Il Mulino.
Bettiza, E. (1996). Esilio. Milano: Mondadori.
von Bremzen, A. (2013). Mastering the art of soviet cooking. A memoir of food and longing. Trad. it.: L’arte della cucina sovietica. Una storia di cibo e nostalgia. Torino: Einaudi, 2014.