07.06.2024 |
identità
Chinago e l’effetto di omogeneità dell’outgroup
Chinago è il primo degli straordinari Racconti del Pacifico di Jack London [1], un libro nato da un’esperienza biografica, il viaggio che lo scrittore aveva compiuto tra il 1907 e il 1908 attraverso gli arcipelaghi della Melanesia e della Polinesia, ricalcando itinerari in precedenza percorsi da altri scrittori, come Melville e Stevenson. I racconti di London hanno come protagonisti una serie di eroi che lottano, soli, contro il destino. La solitudine è infatti uno dei temi preferiti dallo scrittore americano; lo sottolinea nella preziosa e originale introduzione al volume Beniamino Placido, che sostiene si verifichi una sorta di contaminazione, un’estensione della solitudine dai personaggi al lettore: “Quando leggiamo Jack London vogliamo essere soli. Come i suoi personaggi: sul mare, sulle nevi o in una capanna sperduta. Solo se siamo soli, o isolati, possiamo comunicarci – per vie misteriose, imprevedibili – dei segreti.
Ci diciamo, leggendo London in solitudine, che ‘ogni uomo è un'isola’ come aveva ripetuto anche il suo ‘allievo’ Hemingway. Ma un'isola diversa da tutte le altre. Affetta da un diverso, solitario destino. Così come sono diverse, diversissime fra di loro queste isole del Pacifico”.
Placido scrive ancora che “Chinago è il più bel racconto antirazzista che io abbia letto”. E noi lettori non possiamo che essere d’accordo con lui. Il testo narra, in poche pagine, la storia di un giovane cinese di 22 anni, un coolie, portato da una società inglese a lavorare nelle piantagioni della colonia francese di Tahiti, Nuova Caledonia, dove, affaticandosi per cinquanta centesimi al giorno per cinque anni, spera di accantonare il denaro che gli permetterà di tornare al suo villaggio, sulle coste della Cina, e di vivere qui un’esistenza tranquilla circondato da moglie e figli. Ah Cho è una persona mite, di buon carattere, senza vizi, pronto al sorriso, un uomo a cui “bastavano i piaceri semplici”.
Il destino di Ah Cho si mescola però tragicamente con quello di un altro coolie, Ah Chow: i loro nomi si differenziano solo per una lettera e questo particolare, assolutamente trascurabile agli occhi dei padroni occidentali, per i quali i cinesi sono tutti uguali, cambierà il loro destino. Per un banale errore di trascrizione, infatti, Ah Cho subisce un’ingiusta sentenza di morte, comminatagli dall’indifferenza stolida e crudele con cui i colonizzatori guardano ai colonizzati vedendoli come una massa omogenea, all’interno della quale nessuna distinzione è possibile, né auspicabile. London descrive un universo di ingiustizia assoluta, in cui i membri di ciascun gruppo percepiscono i membri degli altri gruppi attraverso una spessa lente di pregiudizi e stereotipi, che non consente di cogliere sfumature e differenze. I coolie non capiscono i padroni, che chiamano “diavoli bianchi”, li subiscono come personaggi impenetrabili, imprevedibili, insaziabili, rabbiosi ed efficienti al tempo stesso. Non hanno però nemmeno relazioni con gli “indolenti e bruni isolani”, che li chiamano chinago. Dal canto loro, i colonizzatori francesi e inglesi non distinguono nella folla ai loro occhi uniforme, composta da lavoratori interscambiabili e di poco valore.
Fin da quando l’ho letto per la prima volta, alcuni anni fa, mi è sembrato che il racconto potesse essere interpretato come una pregnante illustrazione dell’effetto di omogeneità dell’outgroup, descritto nel 1988 da Charles Judd e Bernadette Park, secondo il quale noi tutti tendiamo a percepire i membri dell’outgroup come più omogenei dei membri dell’ingroup sia per quanto concerne le caratteristiche fisiche, sia per quanto concerne le caratteristiche di personalità [2]. Le ragioni dell’effetto sono state spiegate facendo ricorso alla maggior famigliarità che gli individui hanno con i membri del proprio gruppo rispetto a quelli dei gruppi estranei, processo che comporta una rappresentazione più differenziata e complessa del gruppo di appartenenza rispetto a quello estraneo. Una seconda spiegazione, proposta da Bernd Simon nel Modello della categorizzazione sociale egocentrica [3], chiama in causa l’asimmetria nella costruzione cognitiva di ingroup e outgroup, basata sul fatto che la prima differenziazione cognitiva distingue tra me e non-me; per tale motivo l’ingroup è per definizione meno omogeneo dell’outgroup dato che è composto dal sé, che per ciascuno di noi costituisce il prototipo dell’umano, e da altri individui simili al sé per la comune appartenenza di gruppo, mentre l’outgroup è formato unicamente da individui accomunati dall’appartenenza al gruppo estraneo. La categorizzazione sociale egocentrica facilita, secondo Simon, la definizione del sé in termini di identità personale piuttosto che sociale.
Nel caso descritto da London lo scenario coloniale, con la sua compartimentazione stagna tra gruppi sociali, che determina una totale estraneità e lontananza tra dominanti e dominati, rafforza e rende estremo l’effetto di omogeneità dell’outgroup. Un’ulteriore lezione sulla capacità della letteratura di sottolineare aspetti importanti della vita collettiva, anticipando il lavoro degli scienziati sociali.
[1] L’edizione italiana che ho di fronte risale al 1990, è stata pubblicata nella collana La Biblioteca della Fenice delle Edizioni Guanda, nella traduzione di Attilio Veraldi, con un’introduzione di Beniamino Placido.
[2] Judd, C. M., & Park, B. (1988). Out-group homogeneity: Judgments of variability at the individual and group levels. Journal of Personality and Social Psychology, 54, 778-788.
[3] Simon, B. (1993). On the asymmetry in the cognitive construal of ingroup and outgroup: A model of egocentric social categorization. European Journal of Social Psychology, 23, 131-147.
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