Una finestra sulla creatività artistica: quando le malattie neurodegenerative diventano “creative”

 

 
“Fino a che punto siamo artisti o meno
non lo possiamo dire con certezza
né lo possono decidere gli altri”
(V. Van Gogh)

 

Introduzione

Fino a non molto tempo fa era diffusa la convinzione che la creatività fosse una dote innata, una caratteristica propria solo di alcuni individui, una sorta di dono impossibile da ritrovare in chi ne fosse sprovvisto. Da qualche decennio, invece, le neuroscienze stanno dedicando molta attenzione all’argomento riconsiderando la creatività come una caratteristica distintiva del pensiero umano.

In particolare, l’interesse è stato rivolto verso lo studio della creatività a partire dall’osservazione di alcune patologie neurodegenerative, come le demenze (Zaidel, 2014). Queste malattie possono alterare le nostre capacità di parlare, di muoverci, di riconoscere oggetti, di prendere delle decisioni logiche e di provare delle emozioni così come possono determinare delle modifiche a livello creativo senza che questo rappresenti necessariamente un impoverimento qualitativo del prodotto artistico (Chatterjee, 2006). Pensiamo, ad esempio, al caso del famoso pittore W. De Koonig, la cui produzione artistica, dopo aver sviluppato la Malattia di Alzheimer (si veda glossario, Stewart, 2002), ha perso coerenza ed è divenuta più semplificata rispetto alla complessità del suo lavoro precedente (vedi figure).
 Oppure ad alcune opere di Giorgio De Chirico che mostrano evidenti caratteristiche di tipo perseverativo, espressione del fatto che probabilmente l’artista soffriva di epilessia del lobo temporale (Bogousslavsky, 2003; Mendez, 2004).

Questi sono solo alcuni esempi di artisti di professione che in seguito all’esordio di una patologia neurologica hanno subito una drastica modifica del proprio stile artistico. La loro storia, però, ha aperto una finestra sulla “neurologia dell’arte”.

 La prima difficoltà che si incontra in quest’ambito di ricerca è una definizione di creatività che sia facilmente condivisibile tra le varie discipline scientifiche, viste le diverse specificità. Nel 1890, William James parlava di “pensiero divergente” (per indicare il percorso del processo creativo che lascia il tracciato logico-razionale) e di “pensiero convergente” (riferito alla consuetudine e alle regole del pensiero abitudinario), sovvertendo il consueto ordine mentale e dando vita ad una inedita concezione del modo di considerare il pensiero creativo. Nel tentativo di definire cosa si intende per “creatività” potremmo considerarla come la capacità di inventare idee o oggetti, scoprire nuove prospettive per interpretare la realtà, concepire soluzioni originali ed innovative, o semplicemente trovare modi migliori per fare le cose (Cesa-Bianchi, 2009); oppure, come l’attitudine a generare idee che risultano innovative, utili e influenti in determinate aree della conoscenza umana (Chakravarty, 2010). Un’idea, un concetto o una produzione artistica, per essere considerati creativi devono,  da una parte, distinguersi da tutto ciò che è stato proposto in precedenza e dall’altra rispondere alle esigenze dell’ambiente in cui si esprimono.

Creatività e demenze

L’interesse scientifico verso questo argomento si è intensificato alla fine degli anni Novanta, quando Miller et al. (1996) hanno riportato il caso di un paziente che aveva sviluppato nuove abilità creative nonostante un quadro di demenza avanzato. Altri Autori hanno osservato che i pazienti con demenza fronto-temporale (DFT, si veda glossario), rispetto ai soggetti sani, producono disegni che sono particolarmente “bizzarri”, con delle evidenti distorsioni al volto dei soggetti rappresentati (Rankin, 2007; Mendez and Perryman, 2003). Di notevole interesse è il caso, descritto da Seely at al. (2008), di una paziente che ha sviluppato nuove e notevoli abilità artistiche a partire da circa 10 anni prima dell’esordio della patologia, un’afasia (si veda glossario) primaria progressiva (APP, deficit specifico del linguaggio). In particolare, questa paziente presentava un’intensa attività impulsiva-produttiva (drive) nel creare arte visiva, trasformando la musica in pittura, convertendo gli stimoli musicali in forma visiva. La sua arte era particolarmente vibrante, colorata e dalle molte sfaccettature. Nello specifico, la paziente era affascinata dal compositore francese Maurice Ravel che soffriva anch’egli di Afasia Progressiva e tradusse in forma visiva il suo lavoro più famoso, il “Boléro”. Dopo l’esordio della malattia, tuttavia, lo stile pittorico della paziente si modificò passando a uno stile di “realismo fotografico” (tendeva a riprodurre la realtà circostante in maniera estremamente fedele).

Autore/i dell'articolo

Newsletter

Keep me updated about new In-Mind articles, blog entries and more.

Facebook