Stereotipi di genere e disturbi alimentari

“Anche nella popolazione maschile è possibile riscontrare casi di disturbi alimentari, ma con una prevalenza nettamente inferiore rispetto alla popolazione femminile. Per questo motivo, l’argomento non verrà trattato in questa sede.”
“Mi spiace ma nella nostra struttura non è previsto accogliere pazienti di genere maschile…”
“Uno dei principali indici di malnutrizione, condizione cruciale per essere ricoverati, è lo stato amenorroico, ovvero l’interruzione del ciclo mestruale”.

Queste sono solo alcune delle frasi che un paziente di genere maschile affetto da disturbi della nutrizione e dell’alimentazione (di seguito riportati come “disturbi alimentari” o con la sigla DNA) può sentirsi rivolte proprio nei luoghi di cura ai quali ha chiesto aiuto.
Il Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali (DSM-5; APA, 2013) definisce i DNA come “caratterizzati da un persistente disturbo dell’alimentazione o di comportamenti collegati con l’alimentazione che determinano un alterato consumo o assorbimento di cibo e che danneggiano significativamente la salute fisica o il funzionamento psicosociale” (p. 379), suddividendoli in otto categorie diagnostiche, tra cui le più note: Anoressia Nervosa/AN, Bulimia Nervosa/BN, Disturbo da Alimentazione Incontrollata/DAI (si rimanda al glossario).
Nonostante negli ultimi trent’anni il dibattito scientifico attorno ai disturbi alimentari abbia visto rilevanti evoluzioni per quanto riguarda le questioni connesse al genere, come l’eliminazione del criterio relativo all’amenorrea (interruzione del ciclo mestruale) dal DSM-5 per la diagnosi di Anoressia Nervosa (Fries et al., 2013; Murray et al., 2017) e la crescente produzione di letteratura e attenzione clinica e mediatica sul tema, la questione rimane tuttavia ancora insidiosa: agli uomini non è concesso soffrire di DNA. Tanto meno, è concesso avere accesso – facilmente – alle cure appropriate.
I disturbi alimentari sono una cosa “da femmine”. Come le bambole, il rosa, la libertà di piangere, l’accudimento della prole e del focolare domestico.
Ma ne siamo proprio sicurɜ?

I disturbi alimentari: una piaga democratica e inclusiva

Storicamente le patologie alimentari sono state considerate, sia dall’opinione pubblica sia da gran parte di quella medico-clinica, esclusive del genere femminile (Ricciardelli, 2015). In particolare, della popolazione adolescente e giovane adulta, cisgender, eterosessuale, di etnia bianca, appartenente a classi sociali agiate (Cuzzolaro, 2014). Le radici di tale generalizzazione hanno origini piuttosto antiche: basti pensare all’associazione tra anoressia e disturbo isterico (Lasègue, 1873), o ancora al caso delle “Sante Anoressiche” descritto da Rudolph M. Bell (1985), solo per citare due degli esempi più esplicativi a riguardo. Tali radici si sono poi via via rafforzate nel corso dei decenni, esacerbate dalla cultura di massa che ha per lungo tempo rintracciato nei modelli proposti dal mondo della moda e dello spettacolo la fonte della diffusione dei DNA specialmente tra le adolescenti.
Solo negli ultimi anni si è cominciato ad abbracciare l’idea che questa classe di disturbi possa interessare la popolazione nella sua interezza, seppur con peculiarità e declinazioni differenti a seconda dell’intersecarsi di numerosi fattori, tra cui il genere, l’orientamento sessuale, l’età, solo per citarne alcuni (Spitoni, 2019). Questo è sorprendente, se si pensa che quella che viene diffusamente riconosciuta come la prima definizione clinica di Anoressia Nervosa (per opera di Richard Morton nel 1689, si veda il glossario) è basata sul resoconto di due pazienti - che in assenza di patologie organiche manifeste, rifiutavano di alimentarsi - di cui uno di genere maschile.

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