Stereotipi di genere e disturbi alimentari

Il mondo sommerso dei DNA nella popolazione maschile: gli stereotipi di genere

Per quanto riguarda la popolazione maschile, la letteratura evidenzia chiaramente una maggior prevalenza di sintomi alimentari nel sottogruppo omosessuale e bisessuale rispetto a quello eterosessuale. Questo è riscontrato in vari contesti di ricerca: da quello clinico (Ming et al., 2014), ai veterani di guerra (Bankoff et al., 2016), dagli studenti del college (Diemer et al., 2015; Matthews-Ewald et al., 2014), fino a campioni di studi randomizzati controllati (Austin et al., 2009; Bell et al., 2019; Kamody et al., 2019). In particolare, una ricerca di Feldman e Meyer (2010) ha mostrato che gli uomini gay e bisessuali rappresentano dal 14 al 42% della popolazione clinica affetta da disturbi alimentari, contro il 4% rappresentato dagli uomini eterosessuali. Evidenze coerenti sono riportate dallo studio di Kamody (2019), che sottolinea una prevalenza di diagnosi di DNA nel gruppo minoritario 1.9-3.6 volte superiore alla controparte eterosessuale, così come dallo studio di Austin (2009), che riscontra una percentuale di disturbi alimentari restrittivi pari al 6% tra gli uomini gay e bisessuali rispetto all’1% della popolazione eterosessuale maschile.
Ed è facilissimo accedere a tali evidenze, in virtù della solidità dei risultati: se si inserisce nei motori di ricerca “disturbi alimentari maschili”, già dai primi risultati emerge una forte associazione con la quesitone dell’orientamento sessuale. Ed è altrettanto noto a tuttɜ che, ricercare informazioni online è una delle prime attività a cui ci si dedica di fronte a una qualsiasi problematica.
Tra le possibili ricadute che queste evidenze e considerazioni possono avere sulla popolazione -clinica e non - ve ne sono alcune particolarmente significative da un punto di vista sia clinico sia socioculturale, di seguito approfondite.
Queste implicazioni hanno a che vedere con gli stereotipi di genere che permeano la società, i quali richiedono – più o meno violentemente - a tutti gli individui di aderire a una serie di norme per essere riconosciuti e considerati degni rappresentanti del proprio genere di appartenenza, sulla base di una matrice di stampo maschilista patriarcale -espressione della cultura dominante (Ellemers, 2018). Tale sistema di credenze, nel quale ogni individuo si ritrova immerso sin dalla nascita, seppur con gradienti differenti a seconda dei contesti di appartenenza, esige dal genere maschile una serie di caratteristiche, tra le quali la forza, la virilità, l’indipendenza, la rigidità, la razionalità, il non avere bisogno di aiuto. Al contrario, richiede al genere femminile attributi e attitudini quali la fragilità, la sensibilità, l’emotività, la malleabilità, la dipendenza e il bisogno di protezione, cura e sostegno (Ellemers, 2018).
Alla luce di tali considerazioni – e di molte altre per le quali si rimanda a “Uomini duri. Il lato oscuro della mascolinità” (Pacilli, 2020) –, è intuibile come gli stereotipi di genere suggeriscano una superiorità del maschile sul femminile, con la conseguenza che il maschile tema di sentirsi avvicinato all’altro genere, in quanto ciò comporterebbe una perdita di prestigio e, sostanzialmente, di valore e potere.
Applicando tali riflessioni al tema dei DNA, è ipotizzabile che un uomo eterosessuale affetto da tali disturbi possa sperimentare rilevanti difficoltà nel mostrarsi fragile e nel chiedere aiuto, per timore di veder messa in discussione la propria mascolinità - che, come ricordiamo, si basa sull’assunto che l’uomo debba essere forte e non debba avere bisogno di aiuto. Un po’ come succede ai bambini che provano vergogna per la predilezione di giochi, colori, dispositivi culturali stereotipicamente associati al genere femminile. O, ancora, come può succedere a un uomo che può temere di veder messo in discussione il proprio orientamento eterosessuale o la propria “mascolinità”, in virtù della maggior prevalenza di DNA nelle minoranze sessuali e degli annessi stereotipi organizzati attorno a tematiche omofobe... cosa c’è di peggio, in una società ancora fortemente organizzata attorno a una cultura machista patriarcale?
Allo stesso tempo, qualora un uomo gay si trovi immerso in dinamiche di omonegatività interiorizzata (si veda il glossario) e di conseguenza non sia riuscito a fare coming out (si veda il glossario), potrebbe avere difficoltà nel chiedere aiuto per il proprio disturbo alimentare. Potrebbe temere che il disturbo possa tradirlo, possa farlo uscire allo scoperto, con sé stesso e con l’interlocutore.  
Queste, a mio avviso, sono ulteriori considerazioni che rendono centrale il tema della diagnosi dei DNA nella popolazione maschile e che contribuiscono alla sottostima di questi disturbi nella specifica popolazione, ipotizzata con forza dalla letteratura.

Concludendo, è corretto affermare che i disturbi alimentari siano ugualmente frequenti nei generi? No.
Oggettivamente la popolazione femminile risulta maggiormente esposta, rispetto a quella maschile. D’altra parte, è questo un motivo convincente per ignorare e sottovalutare i disturbi alimentari negli uomini? No.
La psicopatologia è una, è democratica e non fa discriminazioni in base al genere quando si tratta di provocare malessere. Forse è bene che anche l’approccio alle cure si orienti in questa direzione e, con esso, l’opinione pubblica.
Non esistono disturbi da maschi e disturbi da femmine. Esistono le persone, esistono le storie – a volte dolorose - e ogni storia merita di essere salvata.

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