La Negazione della Moralità nel Linguaggio degli Insulti
Keywords: linguaggio; insulti; moralità.
Sentire e leggere insulti espliciti in televisione, nei giornali o sui social network sta diventando sempre più frequente. Negli ultimi anni anche i leader politici, che dovrebbero essere particolarmente attenti al linguaggio che utilizzano in pubblico, hanno iniziato ad insultare apertamente gli avversari con epiteti fortemente dispregiativi, quali “scimmia puzzolente" (verso un ministro di colore), “truffatore e traditore” (verso un politico che ha votato diversamente dal previsto), “coglione” (verso un politico avversario), “salma” (verso un politico anziano). Alcuni di questi insulti negano le qualità morali delle persone a cui sono diretti, mentre altri ne negano le capacità intellettive o sociali. Di recente, la psicologia ha dimostrato che moralità, competenza e socievolezza costituiscono le dimensioni principali utilizzate nella valutazione di sé e nella formazione delle impressioni sugli altri. In particolare, la moralità svolge un ruolo cruciale nel regolare il comportamento interpersonale e tra individuo e gruppo. Di conseguenza, la negazione di moralità negli altri dovrebbe costituire una delle peggiori forme di offesa e discriminazione. Questa questione può essere considerata proprio esaminando il linguaggio utilizzato dalle persone per schernire, umiliare e offendere gli altri in maniera più o meno grave e intenzionale, ossia gli insulti.
La psicologia morale
La questione di cosa sia morale o immorale, della divisione tra bene e male, tra giusto e sbagliato è stata al centro del pensiero filosofico occidentale fin dalle sue origini. La psicologia, invece, ha iniziato a occuparsi di questo tema solo di recente con gli studi di Piaget sullo sviluppo morale (si veda glossario) nei bambini. Per comprendere come si sviluppa il giudizio morale, Piaget (1932) chiedeva a bambini di circa sei anni perché non si dovessero raccontare bugie. La risposta più comune era “perché le bugie sono parolacce”. I bambini un po’ più grandi (circa 8-10 anni) erano invece in grado di spiegare che non bisogna dire bugie “perché è sbagliato” o “perché non sono la verità”. Nel primo caso, i bambini riunivano parolacce e bugie in “quello che non si può dire”. Secondo Piaget, questo indica chiaramente che, nei primi stadi dello sviluppo, la distinzione tra ciò che è giusto e sbagliato è esteriore dalla coscienza del bambino e si basa su regole imposte dall’autorità. È solo con lo sviluppo del gioco cooperativo che i bambini imparano a mettersi nei panni degli altri e a comprendere che le regole possono basarsi su una nozione più sofisticata di moralità basata sull’equità e il rispetto reciproco. Fu poi Kohlberg (1969) a sistematizzare in stadi successivi lo sviluppo morale come una forma di sviluppo cognitivo (si veda glossario), fondando così la moderna psicologia morale. Secondo questo studioso, i principi universali di giustizia costituiscono il culmine dello sviluppo morale. In seguito, Gilligan (1982) notò che il concetto di giustizia non rendeva conto di tutte le sfaccettature della moralità e propose di considerare “l’etica del prendersi cura” degli altri come un aspetto dello sviluppo morale indipendente dall’ “etica della giustizia”. La psicologia dello sviluppo morale ha quindi individuato due principali dimensioni della moralità: una riguarda il far male e la cura degli altri, l’altra riguarda la giustizia e la reciprocità.
Tuttavia, al di fuori delle civiltà occidentali, i temi legati alla lealtà e al rispetto verso collettività più ampie, come la famiglia, il proprio gruppo, la comunità, o il proprio Paese, così come la purezza spirituale e religiosa, sono spesso parti fondamentali del dominio morale. In base a queste osservazioni, Haidt e collaboratori (Graham et al., 2013; Haidt & Graham, 2007) hanno elaborato la Teoria dei Fondamenti Morali (si veda glossario), per cui ”la moralità è un sistema di valori, virtù, norme, pratiche, identità, tecnologie, istituzioni e meccanismi psicologici che lavorano insieme per sopprimere o regolare l’egoismo e rendere possibile la vita sociale” (Haidt, 2008; p. 70). Secondo questa teoria esistono cinque fondamenti morali innati e universali: 1) i comportamenti dannosi verso gli altri o la preoccupazione per le persone più deboli; 2) le idee di giustizia e rispetto dei diritti altrui; 3) la fedeltà o il tradimento del proprio gruppo; 4) il rispetto verso l’autorità, l’ordine sociale e le tradizioni; 5) i valori di purezza, virtù e integrità sia spirituale che fisica. Ricerche successive hanno mostrato che gruppi diversi, culture e nazioni diverse, così come persone con ideologie diverse basano i propri valori morali su fondamenti diversi. Ad esempio, le persone con ideologie liberali considerano più importanti i valori legati al danno/cura degli altri e all’uguaglianza, mentre i conservatori basano i propri valori morali maggiormente sui principi di rispetto dell’autorità, lealtà verso il proprio gruppo e purezza (Graham et al., 2011). Similmente, le culture orientali (ossia collettiviste) valorizzano maggiormente i principi legati alla purezza e alla lealtà verso l’ingroup rispetto alle culture occidentali (individualiste).
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