Chi è Senza Peccato… Pervasività delle Condotte Immorali nella Vita Quotidiana e Strategie di Razionalizzazione
Il comportamento non etico in relazione ai gruppi di appartenenza
I gruppi e le reti sociali presentano un ruolo fondamentale nel normalizzare il comportamento non etico rendendolo accettabile e legittimo agli occhi delle persone che ne fanno parte (Moore & Gino, 2013). Recentemente uno n’dranghetista ha dichiarato: “quando ero un assassino andavo in chiesa con animo tranquillo, ora che sono un collaboratore di giustizia non prego più serenamente” (Gratteri & Nicaso, 2013). Queste parole, sbalorditive quanto quelle prima citate di Madoff, possono essere comprese proprio facendo riferimento alla centralità che in termini identitari può rivestire l’appartenenza a un determinato gruppo, centralità a cui ci si riferisce con il concetto di identità sociale (Tajfel & Turner, 1979). I gruppi a cui le persone appartengono si organizzano e sviluppano attorno a delle norme e dei codici di comportamento più o meno espliciti, che stabiliscono quali sono i comportamenti corretti da seguire e quali invece quelli sbagliati da cui stare alla larga. Quando molto identificati col gruppo, i suoi membri tendono a interiorizzarne i valori prototipici, conformando i propri comportamenti a quelli più in linea con questi valori. Nelle associazioni criminali - n’drangheta, mafia o camorra – si è soliti definire infame proprio colui che collabora con la giustizia. Chi tradisce il mandato criminale che prevede il dovere dell’obbedienza e il vincolo del silenzio – sanciti tramite una complessa simbologia di riti di iniziazione che si mescolano non a caso con riti religiosi – perde il proprio onore, il proprio status sociale e la propria rispettabilità nella comunità di riferimento. La conformità ai valori di un gruppo non avviene solo nei gruppi criminali, ma nei gruppi più diversi che caratterizzano la vita di tutti noi. Ricerche sperimentali hanno mostrato, in questo senso, come nei gruppi in cui il comportamento non etico è considerato e accettato come prototipico gli individui cominciano a pensare e agire in modo coerente con quel prototipo, intraprendendo per questo comportamenti non etici (O’Fallon & Butterfield, 2012).
Le persone tendono, inoltre, a giudicare il comportamento non etico di altri individui come meno problematico da un punto di vista morale quando percepiscono gli stessi come vicini a sé (Gino & Galinsky, 2012). Questo non solo determina una valutazione più magnanima del comportamento non etico altrui, ma tende a ridefinire in senso non etico anche i canoni del proprio comportamento provocando un vero e proprio contagio immorale (Gino & Moore, 2013). Gli individui, infatti, sono molto suscettibili all’influenza degli altri e cercano nell’ambiente sociale degli spunti per distinguere cosa è appropriato/giusto da cosa non lo è.
Un altro aspetto interessante è collegato al fatto che quando i beneficiari del proprio comportamento non etico sono anche altre persone, oltre a se stessi, si percepisce il comportamento stesso in termini più positivi, preservando un’immagine morale di sé. In questo senso una posizione estremamente interessante è assunta dalla famiglia, senza dubbio uno dei principali e fondamentali gruppi di appartenenza per gli individui. Benché la famiglia rivesta un ruolo cruciale nella socializzazione del comportamento morale, non sempre le norme di moralità familiare si allineano con le norme di moralità civica. Per descrivere quel fenomeno in cui gli interessi a breve termine della famiglia confliggono con quelli a lungo termine della società civile con la conseguente scelta dei membri di far prevalere gli interessi familiari, si parla di familismo amorale (Banfield, 1959). Anche in questo caso va sottolineato che il familismo amorale non corrisponde all’essere amorali tout court quanto al nutrire forti sentimenti di moralità e lealtà verso la famiglia ma deboli sentimenti di moralità verso la società più in generale. Si assiste a quello che potremmo definire favoritismo morale per il proprio gruppo. Le ricerche a tal proposito ci dicono infatti che la maggior parte delle persone quando aiuta un membro dell’ingroup a raggiungere il successo crede di fare qualcosa di buono, senza considerare il danno arrecato a chi non riceve tale supporto perchè membro dell’outgroup (Bazerman & Banaji 2004). I casi di favoritismo nei confronti della propria famiglia sono molto più numerosi di quello che immaginiamo e vanno ad esempio dal tentativo dei genitori di inserire i propri figli in una buona scuola, comportamento che però dati i posti limitati della scuola stessa può andare a scapito di altri bambini, fino alla tendenza a privilegiare per una posizione lavorativa un proprio parente anche se non meritevole della stessa.
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