È difficile perdonarti... eppure ne vale la pena!

Perdonare è liberare un prigioniero e scoprire che quel prigioniero eri tu.

Lewis B. Smedes

 

Un’esperienza dalla quale nessun uomo o donna è purtroppo in grado di esimersi nel corso della propria vita è quella del venire feriti, offesi o amareggiati. In tali circostanze, così come nei casi più gravi di violenza ed abuso, tre risposte adattive, funzionali alla salvaguardia del benessere nostro e/o delle relazioni sociali di cui facciamo parte, sono particolarmente ricorrenti: la vendetta, la fuga (o evitamento) ed il perdono (McCullough, 2008; Regalia & Paleari, 2008). 

Quando la rabbia e il rancore hanno la meglio, tendiamo a riaffermare il nostro potere sull’altro, a salvaguardare la nostra “faccia” compromessa dall’offesa subita e a tutelarci dal ripetersi di azioni simili attraverso atti di rivalsa che fungano da deterrente e da monito. Nel caso in cui la paura prevalga sulla rabbia e la vendetta ci paia troppo rischiosa o difficilmente praticabile, siamo invece soliti scongiurare il ripetersi di episodi analoghi fuggendo da chi ci ha fatto del male, estraniandoci il più possibile, psicologicamente e fisicamente, da lui/lei. Se venissimo per esempio derisi da un collega, potremmo cercare di fargliela pagare sabotando le sue richieste o isolandolo socialmente; ma se temessimo da parte sua ritorsioni ben più gravi, faremmo in modo di tenercene, nei limiti del possibile, alla larga. Uno dei risvolti negativi della vendetta e della fuga, come intuibile dall’esempio appena portato, è tuttavia quello di compromettere, talvolta irrimediabilmente, il rapporto con chi ci ha ferito. 

Diverse ricerche longitudinali e sperimentali dimostrano che il perdono, se opportunamente inteso e non equivocato con forme di pseudo-perdono, è invece in grado di tutelare, a prescindere dalla gravità dell’offesa subita, non solo il nostro benessere di vittime, ma anche quello delle relazioni in cui siamo coinvolti, compreso il legame con l’offensore (per alcune rassegne si veda Witvliet & McCullough, 2007; Worthington, Witvliet, Pietrini, & Miller, , 2007). Ciò non è irrilevante se si considera che i torti che percepiamo come più gravi e dolorosi ci sono arrecati proprio da famigliari, amici e colleghi di lavoro, la qualità dei rapporti coi quali è fondamentale per la nostra salute psicofisica (Leary, Springer, Negel, Ansell, & Evans, 1998; Worthington & Scherer, 2004). 

 

Che cosa il perdono non è

In che cosa consiste il perdono autentico? Come distinguerlo da forme di pseudo-perdono? Gli psicologi concordano nel ritenere che, contrariamente a quanto si possa pensare, perdonare non significhi dimenticare, sminuire, giustificare o scusare l’accaduto, né abdicare al diritto di ottenere giustizia, né riconciliarsi (Fincham, 2009).

Innanzitutto il perdono comporta, nel momento in cui viene accordato, il ricordo dell’accaduto e della sua gravità e, successivamente alla sua concessione, non ne implica l’oblio. Non è del resto possibile dimenticare a comando, né sarebbe adattivo farlo, ma solo accantonare temporaneamente i ricordi indesiderati impegnandosi in attività distraenti, come quando andiamo al cinema con gli amici per non pensare al litigio furioso avuto con il nostro partner (Wegner, 1989).

In secondo luogo il perdono è tale se la vittima, pur arrivando col tempo a fare attribuzioni (si veda glossario) più favorevoli nei confronti di chi l’ha ferita, ne riconosce comunque le responsabilità e le colpe, così come la natura biasimevole delle azioni compiute, senza sminuirle o giustificarle. 

Inoltre, anziché rinunciare alle proprie legittime pretese di ottenere giustizia, la vittima che perdona, al contrario di quella che si vendica, è in genere convinta che le norme vigenti nell’ambiente sociale e culturale in cui vive tutelino adeguatamente tali pretese; rifiuta sì di farsi giustizia da sé, ma non necessariamente al diritto di avere giustizia (Aquino, Tripp, & Bies, 2006). È però generalmente persuasa che, invece di una giustizia retributiva, finalizzata a punire il colpevole in modo proporzionale al danno arrecato, sia opportuno perseguire una giustizia ricostituiva, orientata a ricomporre la controversia e a ristabilire una comunanza con l’offensore attraverso l’ammissione ed il riconoscimento concorde del torto compiuto e subito (Braithwaite, 1989). Alcuni studi sperimentali condotti in quest’ambito dimostrano, ad esempio, che il perdono è più associato sul piano cognitivo e più simile dal punto di vista fisiologico alla giustizia ricostituiva, che non a quella retributiva (Strelan, Feather, & McKee, 2008; Witvliet et al., 2008).

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