Uno sguardo psico-sociale sul terrorismo
Il sentimento della paura si configura come un elemento presente in molti segmenti della vita sociale contemporanea. Le persone percepiscono un elevato senso d’insicurezza determinato da una vasta pletora di fattori tra i quali, ad oggi, è possibile rintracciare anche il terrorismo (Bauman, 2014). Esso è ormai entrato a pieno titolo nella nostra quotidianità; gli attacchi, la loro imprevedibilità e le loro atroci conseguenze sono costantemente sotto gli occhi di tutti coloro che seguono le informazioni diffuse dai mezzi di comunicazione. E’ difficile dimenticare i volti delle persone coinvolte nell’attentato del 13 novembre 2015 al Bataclan di Parigi, oppure nell’azione del 18 marzo 2015 al Museo del Brado di Tunisi. Molti sono gli esempi ai quali abbiamo assistito in un tempo recente. Dall’inizio del 2015 fino ai primi giorni del 2016, sono stati realizzati 274 attentati che hanno prodotto 3.647 vittime in tutto il mondo (Sironi, 2016).
Sebbene il terrorismo sia diventato di interesse scientifico, e pubblico, soprattutto a seguito degli attacchi alle Torri Gemelle dell’11 settembre 2001, esso ha radici molto lontane. Il termine è entrato nel lessico politico a partire dalla fine del Settecento, nel contesto della Francia rivoluzionaria e del Regime del Terrore (Iacovelli, 2015; Miller, 2006).
Da allora sono state formulate oltre cento definizioni, ognuna delle quali ha avuto il merito di mettere in risalto alcune delle tante sfaccettature di un fenomeno che sembra difficile da descrivere in maniera esaustiva (Schmid & Jongman, 1988).
Del resto il terrorismo, come ogni altro processo storico, è destinato a mutare nel tempo e ad acquisire quella poliedricità che mal si coniuga con una sua descrizione univoca. Tuttavia, mantenendosi su un livello di descrizione generale, è possibile individuare degli aspetti ricorrenti nelle diverse definizioni e identificarlo come uno strumento di violenza, o di minaccia della stessa, che permette il raggiungimento di obiettivi politici o sociali (Horgan, 2015).
In questo senso, le vittime dirette e indirette degli attacchi terroristici, cioè coloro che rimangono uccisi, mutilati o, semplicemente, spettatori dell’azione, non sono i reali nemici da combattere ma, piuttosto, capri espiatori o bersagli casuali di un conflitto più ampio che contrappone i terroristi e i loro veri rivali che, spesso, sono identificabili nelle forze politiche (Schmid & de Graaf, 1982).
Il fatto che il terrorismo sfrutti in modo attento le reazioni emotive delle persone con la finalità di ottenere cambiamenti e trasformazioni socio-politiche, rende evidente le motivazioni che hanno spinto le discipline psicologiche a occuparsene nel corso del tempo (Kruglanski & Fishman, 2006; Schmid, 2011).
In particolare, essendo il terrorismo un fenomeno comportamentale governato dall’agentività umana, la psicologia ha cercato di trovare le risposte a interrogativi inerenti i meccanismi che spingono le persone a farne parte, ad attivarsi mettendo in atto le azioni richieste ed, eventualmente, a disimpegnarsene (Horgan, 2015; Kruglanski & Fisherman, 2006, 2008).
Gli elementi alla base del coinvolgimento nella causa terroristica
Negli anni Settanta e Ottanta, i primi studi psicologici volti a indagare i motivi dell’adesione alla causa terroristica, hanno focalizzato l’attenzione sulla ricerca sistematica dei processi psicopatologici sottostanti (Kruglanski & Fishman, 2008).
La tendenza a confinare il comportamento terrorista nell’ambito della malattia, è dipesa principalmente dalle atrocità delle azioni compiute dai terroristi che sembravano operare al di fuori delle logiche della ragionevolezza (Horgan, 2015; Kruglanski & Fishman, 2008).
Malgrado la ricerca di un’anomalia psicologica sia risultata molto affascinante, gli studi realizzati in tal senso sono stati criticati per lo scarso rigore concettuale, teorico e metodologico che li ha caratterizzati (Taylor & Quayle, 1994).
Secondo alcuni autori, considerare i terroristi come persone lontane dalla normalità ha avuto importanti implicazioni che, da una parte, hanno portano a sottovalutare i reali processi attraverso i quali i membri di un gruppo terroristico agiscono in modo disumano (Kellen, 1982) e, dall’altra, hanno condotto a una lettura semplificata di una situazione caratterizzata da elevati gradi di complessità (Taylor, 1988).
L’insoddisfazione nei confronti dell’individuazione di una psicopatologia del terrore ha contribuito all’assunzione, in ambito psicologico, di una nuova prospettiva che ha spostato l’attenzione sulle caratteristiche situazionali, quali ad esempio, lo status socio-economico, il livello d‘istruzione, l’oppressione politica, o ancora, le esperienze di discriminazione (Kruglanski & Fishman, 2008). Queste, considerate inizialmente come le cause alla radice del terrorismo, non sono risultate, da sole, né sufficienti né necessarie per determinare l’avvicinamento degli individui ai gruppi terroristici (per una rassegna si veda Kruglanski & Fishman, 2006).
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