Uno sguardo psico-sociale sul terrorismo
Al fine di evitare, o quanto meno di alleviare, la negatività delle conseguenze sopra citate, alcuni individui tentano di reagire e di riscattarsi dall’esclusione subita rispondendo con rabbia, ostilità o aggressività nei confronti degli altri (Gaertner, Iuzzini, & O’Mara, 2008), oppure aderendo in modo estremo a credenze religiose che diventano parti fondanti della loro identità (Altemeyer & Hunsberger, 1992).
Con l’obiettivo di approfondire le ricadute dell’esclusione sociale subita da parte dei membri del proprio gruppo di appartenenza (ingroup) o da altri gruppi (outgroup), Schaafsma e Williams (2012) hanno condotto uno studio sperimentale che ha coinvolto 720 adolescenti olandesi appartenenti a differenti gruppi etnici. I risultati hanno messo in evidenza che quando l’esclusione viene perpetuata dall’outgroup, si verifica un incremento della disponibilità ad agire in modo ostile e aggressivo nei confronti degli altri, al contrario, quando l’esclusione viene messa in atto dall’ingroup, aumentano i livelli di fondamentalismo religioso dichiarato dai partecipanti.
In relazione a quanto appena sottolineato, si comprende la centralità del contesto gruppale che, oltre ad attivare l’adesione al terrorismo, può essere considerato come lo spazio nell’ambito del quale avviene il reclutamento di nuovi adepti. Il reclutamento, che può essere realizzato attraverso le reti di conoscenze informali, oppure tramite percorsi più strutturati all’interno delle istituzioni di riferimento, come ad esempio nei contesti religiosi o via internet (Kruglanski & Fishman, 2006), permette di sostenere la sensazione di sentirsi parte di una realtà condivisa, di iniziare a costruire una forte identità sociale e di attivare un percorso di adesione all’ideologia dominante (Kruglanski & Fishman, 2008). Abbracciare il sistema di credenze del movimento terrorista di appartenenza, è fondamentale nella misura in cui esso indica agli individui come agire (Hardin & Higgins, 1996; Zartman & Anstey, 2012) e, al contempo, legittima la violenza collocandola al di fuori della sfera dell’immoralità (Kruglanski et al., 2013). Generalmente, l’ideologia terrorista viene promossa tramite due vie, una semantica e un retorica. La prima opera con lo scopo di deumanizzare i target ai quali viene rivolta la violenza (Castano & Giner-Sorolla, 2006; Haslam, 2006), mentre la seconda agisce al fine di far apparire quest’ultima come necessaria, legittima e, dunque, ammissibile (Kruglanski & Fishman, 2008).
Questo meccanismo di coinvolgimento ideologico è talmente importante da essere portato avanti, non solo dal gruppo, ma anche dalla cosiddetta figura dell’esperto, ovvero dall’autorità epistemica che guida e legittima le azioni dei terroristi (Kruglanski & Fishman, 2008) evitando che questi ultimi agiscano in modo indipendente o vengano influenzati da agenti esterni che potrebbero mettere a repentaglio la buona riuscita degli attacchi (Friedklin, 2005) e promuovere defezioni che contribuirebbero al disonore del movimento stesso (Berman & Laitin, 2005).
Ostacolare il coinvolgimento nel terrorismo e incentivare la de-radicalizzazione
Nel corso degli ultimi anni, abbiamo spesso sentito lo slogan lotta globale al terrorismo. Nonostante questo motto esprima la necessità di agire in modo coordinato, il suo rivolgersi a un terrorismo generico può far pensare che per sconfiggerlo sia sufficiente un’unica strategia da poter utilizzare in ogni occasione. Purtroppo, la realtà è più complessa e impone, per la pianificazione di efficaci opportunità di contrasto e de-radicalizzazione, un’attenzione costante alle peculiarità che il terrorismo assume di volta in volta (Dugas & Kruglanski, 2014; Kruglanski & Fishman, 2006).
Come sostiene Roy (2007, 2016) a proposito del terrorismo jihadista, per combattere questa violenza moderna, mossa dal fascino per l’estetica del terrore, dalla ricerca del rischio, così come dalla necessità di rompere con la cultura occidentale, si necessita di una nuova lente di ingrandimento che permetta di strutturare interventi di prevenzione e de-radicalizzazione proprio a partire da ciò che sembra essere alla base della dinamica terroristica (Kruglanski et al., 2013).
Ad oggi, le strategie realizzate hanno tentato di promuovere processi di contro-radicalizzazione e di de-radicalizzazione (Horgan, 2008). I primi si pongono l’obiettivo di costruire programmi politici, economici, sociali e psico-educativi da rivolgere a tutti quei soggetti che sono a rischio di essere coinvolti in movimenti terroristici, mentre i secondi si prefiggono la finalità di reintegrare nella società individui che hanno già intrapreso la strada della radicalizzazione e devono essere dissuasi dalla violenza (Bjørgo & Horgan, 2008).
La contro-radicalizzazione può essere realizzata ridefinendo le motivazioni che spingono le persone ad aderire ad aggregazioni terroristiche, costruendo contesti che non vadano a umiliare la dignità dei potenziali militanti (Kruglanski & Fishman, 2008), individuando strumenti, alternativi alla violenza, in grado di ripristinare una visione positiva di se stessi e del proprio futuro (Kruglanski et al., 2013), oppure, diffondendo messaggi, altrettanto credibili di quelli diffusi dalle autorità epistemiche terroriste, capaci di mettere in discussione i principi cardine della retorica radicale diffusa nei movimenti violenti (Kruglanski & Fishman, 2008).
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