"Se l'è cercata": il victim blaming nei confronti delle vittime di violenza di genere
La relazione tra aspetto fisico delle vittime e victim blaming emerge chiaramente dai casi sopra citati di Cork e Palermo ed è incarnata nel luogo comune socialmente accettato per il quale una donna vittima di violenza sessuale se vestita in modo sensuale al momento della violenza se la sia andata a cercare provocando l’aggressore con un atteggiamento seducente. Al di là dei casi di cronaca, questo legame è stato confermato da un numero crescente di ricerche condotte sul fenomeno dell’oggettivazione sessuale (si veda glossario), fenomeno che consiste in una riduzione delle donne al loro corpo e alla gradevolezza e all’utilità sessuale dello stesso, a discapito della loro personalità e umanità (Fredrickson & Roberts, 1997; Loughnan & Pacilli, 2014; Pacilli, 2014). In particolare, è stato dimostrato come le vittime di violenza sessuale vestite in modo sensuale vengono considerate come maggiormente responsabili e in grado di soffrire in misura minore per la violenza subita rispetto a donne che non indossavano abiti sensuali (Loughnan et al., 2013; Pacilli et al., 2017; Spaccatini et al., 2019; 2023; Workman & Freeburg, 1999). Recenti studi condotti in Italia dal nostro gruppo di ricerca hanno mostrato come il legame tra oggettivazione sessuale e attribuzione di biasimo non riguardi solo i casi di forme estreme di violenza di genere, come appunto la violenza sessuale, ma che, anzi, si manifesti anche di fronte a forme più sottili e meno efferate di violenza di genere. Nello specifico, da questi studi è emerso che le vittime di molestie di strada (Spaccatini et al., 2019) e di molestie online (Spaccatini et al., 2023) vengono biasimate in misura maggiore rispetto alle vittime con un aspetto non sessualizzato. Inoltre, la sensualità dell’abbigliamento delle vittime diventa negli occhi di chi percepisce un’attenuante per gli aggressori, infatti le persone tendono a considerarli meno responsabili per una violenza agita quando la vittima ha un abbigliamento sensuale rispetto a quando non indossa tale abbigliamento (Bernard et al., 2015). L'aspetto fisico delle vittime assume quindi un ruolo cruciale nella percezione della violenza di genere compromettendo il riconoscimento dello status di vittima sulla base della sensualità dell’abbigliamento che negli occhi di chi percepisce diventa una chiara prova di co-responsabilità e istigazione. Proprio per questo sono state proposte numerose iniziative per cercare di sfatare i miti intorno alla relazione tra abbigliamento e responsabilità per la violenza subita. Un esempio degno di esser menzionato è la mostra “What were you wearing?” progetto proposto nel 2013 da Jen Brockman Brockman e Mary A. Wyandt-Hiebert dell’Università dell’Arkansas e diffuso in Italia grazie al lavoro dell’associazione Libere Sinergie con il titolo di “Com’eri vestita?”. Si tratta di una mostra in cui vengono esposti capi di abbigliamento che le vittime indossavano al momento della violenza subita e che mira a contrastare il pregiudizio che la vittima avrebbe potuto evitare la violenza sessuale indossando abiti meno provocanti.
Le conseguenze del victim blaming
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