"Se l'è cercata": il victim blaming nei confronti delle vittime di violenza di genere

In particolare, attribuendo la colpa alle vittime sulla base di loro caratteristiche come, ad esempio, l’abbigliamento o il consumo di alcol, le persone, da un lato, si convincono che le cose brutte accadono solo a chi se l’è andate a cercare e, dall’altro, deducono come ci si deve comportare per evitarle (Bieneck & Krahè, 2011; Maruna & Mann, 2006; Strömwall et al., 2013). 

 
La funzione di legittimazione dello status quo
 
Un’altra funzione del victim blaming è di natura psicosociale ed è volta a legittimare lo status quo, ossia a mantenere un’organizzazione della società permeata dalle diseguaglianze di genere che operano a svantaggio delle donne. In questo senso, il victim blaming è un potente strumento per confinare le donne in ruoli stereotipici e subalterni. Infatti, il victim blaming può esser considerato una ritorsione inflitta alle donne che non rispettano i ruoli stereotipici. Allo stesso tempo, proprio la paura di esser biasimate in caso di violenza porta le donne a conformarsi agli stereotipi e ruoli di genere. Prove di questa funzione sono fornite dalle numerose ricerche che hanno analizzato la relazione tra tendenza a biasimare le vittime di violenza e l’interiorizzazione di sistemi di credenze che sostengono un’organizzazione della società basata su una gerarchia di genere, come ad esempio il sessismo. Le ricerche che si sono concentrate sul sessismo hanno adottato come cornice teorica la teoria del sessismo ambivalente (Glick & Fiske, 1996), secondo la quale il sessismo è composto da due dimensioni tra loro complementari, dette sessismo ostile e sessismo benevolo (per una rassegna, Cinicola, 2015). Il primo indica una serie di atteggiamenti esplicitamente negativi di antipatia e ostilità verso le donne, soprattutto verso quelle che non si conformano ai ruoli stereotipici. Da questa prospettiva, le vittime di stupro sfrutterebbero il loro fascino a scapito degli uomini per poi trarre vantaggio (ad esempio, denaro e potere) dalla denuncia di vittimizzazione (Yamawaki et al., 2007). In linea con questa ipotesi, è stato dimostrato che le persone con un alto livello di sessismo ostile tendono a minimizzare la gravità della vittimizzazione e a mettere in dubbio la credibilità delle vittime, ritenendo che esagerino nel riportare sofferenza esperita e il livello di efferatezza della violenza subita (Yamawaki et al., 2007). Il sessismo benevolo, invece, indica un insieme di atteggiamenti paternalistici, apparentemente positivi, che considerano le donne, soprattutto quelle che aderiscono ai ruoli stereotipici, come creature meravigliose e delicate da proteggere. Le ricerche hanno mostrato che le donne che violano le aspettative circa i comportamenti stereotipicamente appropriati per loro, ad esempio uscendo da sole di sera con uomini, e subiscono violenza, agli occhi di chi ha interiorizzato il sessismo benevolo perdono il loro status di “brave ragazze” innocenti e meritevoli di cura e protezione e, di conseguenza, vengono considerate maggiormente responsabili della vittimizzazione subita (Abrams et al., 2003; Viki et al., 2004). Quindi il sessismo ambivalente è in relazione con un atteggiamento di svalutazione delle vittime: il sessismo benevolo favorisce l'attribuzione della colpa alla vittima di stupro, il sessismo ostile mette a rischio la credibilità della vittima. Strettamente collegati al sessismo e che favoriscono la legittimazione dello status quo troviamo i miti dello stupro, un insieme di credenze e convinzioni su come dovrebbe essere una violenza sessuale e come dovrebbero essere e comportarsi le vittime e gli aggressori (Burt, 1980; Lonsway & Fitzgerald, 1994; Pacilli, 2014). La peculiarità dei miti dello stupro è che funzionano da copioni mentali che influenzano, distorcendola, la percezione dei casi di stupro (Gerger et al., 2007). Esistono due categorie di miti dello stupro. La prima fa sì che si neghi che l’episodio sia violenza attraverso una definizione molto ristretta di cosa può essere considerato uno stupro, riconoscendo come stupro solo episodi estremi. L’aggressore, ad esempio, può essere solo una persona sconosciuta alla vittima, la violenza avviene nelle zone malfamate e isolate delle città, solitamente di notte e prevede un’efferata violenza da parte dell’aggressore che lascia segni ben visibili sul corpo delle vittime (Peterson & Muehlendhard, 2004). Questa definizione rigida e limitata fa sì che episodi di violenza sessuale che si verificano in ambiente domestico non siano riconosciuti come violenze sessuali. Più le persone interiorizzano i miti dello stupro, più tendono a colpevolizzare la vittima (Basow & Minieri, 2011; Gerger et al., 2007), a sottovalutare la gravità della violenza (Newcombe et al., 2008) e a scoraggiare le vittime dal denunciare l’accaduto (Frese et al., 2004). Inoltre, gli effetti dei miti dello stupro si riscontrano anche sulle vittime stesse che faticano a riconoscere la violenza subita come stupro se quanto accaduto presenta caratteristiche diverse da quelle che rientrano nei miti dello stupro (Peterson & Muehlenhard, 2004). La seconda categoria entra in gioco quando non è possibile negare che l’episodio costituisca un caso di violenza e fa leva sulle caratteristiche delle vittime. In questi casi, i miti dello stupro servono a minimizzare e giustificare la violenza rintracciando nelle caratteristiche e/o nei comportamenti delle vittime delle prove per considerarle almeno in parte responsabili per la violenza subita. In tal senso, un elemento particolarmente potente nel trasformare la vittima in co-responsabile agli occhi dei/delle percipienti, è la sensualità dell’abbigliamento e dell’aspetto fisico delle vittime.

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