Metaverso e mondi virtuali, quali prospettive di ricerca e di intervento in ambito psicosociale?
Metaverso, processi cognitivi e dinamiche sociali
Il metaverso permette di esplorare spazi e vivere esperienze digitali in modo simile a quanto accade nel mondo offline. Infatti, tale tecnologia non consente semplicemente la riproduzione di esperienze reali in un ambiente digitale 3D, ma rende possibile incarnarsi in corpi virtuali o avatar. A questo proposito, l’embodiment e il senso di presenza rappresentano meccanismi psicologici che, agendo a livello individuale, rendono le esperienze all’interno di un universo simulato, realistiche. Il processo di embodiment consente di acquisire consapevolezza del proprio avatar all’interno di uno spazio virtuale. L’avatar viene mappato nella rappresentazione corporea dell’utente, divenendo la principale interfaccia attraverso cui manipolare l’informazione disponibile (Kilteni et al., 2012). Il metaverso non è limitato dalle leggi della fisica, né della biologia o dell’evoluzione: gli utenti sono liberi di creare e indossare qualsiasi forma di corpo virtuale, non necessariamente antropomorfi. Infatti, secondo la teoria della discrepanza del sé di Higgins (1987), è possibile identificare diverse dimensioni del sé: il sé reale e il sé ideale. Questi costrutti che rappresentano, rispettivamente, la percezione che il giocatore ha di come è e di come vorrebbe essere nella vita reale. In questa prospettiva, l'avatar rappresenta il sé online del giocatore e costituisce un ponte per la riduzione della discrepanza che spesso esiste fra ciò che siamo e ciò che vorremmo essere (Bessière et al., 2007) e l’interazione attraverso un avatar può favorire cambiamenti nella percezione di sé. Questo effetto è noto in letteratura come Proteus Effect (Yee & Bailenson, 2007) e deve il suo nome a una divinità greca in grado di mutare forma a suo piacimento. Il Proteus Effect descrive il fenomeno per il quale il comportamento di un individuo si modifica sulla base delle caratteristiche del proprio corpo virtuale (Yee & Bailenson, 2007): se un individuo crede che gli altri si aspettino una determinata condotta in considerazione dell’aspetto del proprio avatar, è probabile che lui/lei si comporti in linea con tali aspettative. (Yee & Bailenson, 2007). Ad esempio, Fox et al. (2013) hanno mostrato che dopo aver interagito attraverso avatar sessualizzati, le partecipanti allo studio riportavano maggiori pensieri legati al proprio corpo, rispetto a donne che avevano assunto l’identità di avatar non sessualizzati. In linea con l’effetto Proteus, questi risultati suggeriscono quindi una maggiore tendenza all’auto-oggettivazione che permane anche dopo l’esperienza virtuale e derivante dalla sessualizzazione del proprio corpo virtuale (Fox et al., 2013). Altri autori (Chandler et al., 2009) hanno dimostrato che, dopo interazioni ripetute con un particolare avatar, gli individui tendono a presentare cambiamenti a lungo termine nella percezione del sé, tanto che il corpo virtuale diventa una parte strutturale del concetto di sé. Ad esempio, i partecipanti ad un esperimento, dopo aver utilizzato avatar di corporatura differente dalla propria, tendevano a stimare il proprio indice di massa corporea come più simile a quello dell’avatar, rispetto a quello reale (Chandler et al., 2009). Un meccanismo psicologico altrettanto importante che governa le esperienze in ambienti digitali tridimensionali è il senso di presenza. Tale costrutto viene definito come uno stato psicologico in cui la virtualità passa inosservata rispetto alle percezioni dell’utente (Lee, 2004), il quale non riesce a riconoscere il ruolo della tecnologia, garantendo una esperienza realistica in un ambiente simulato a computer (Riva, 2009). In letteratura, sono state definite diverse forme di presenza esperita dagli utenti, ma, nell’ambito della ricerca psicosociale, è di particolare interesse la social presence, ovvero la sensazione di conoscere un’altra persona, quindi la sua personalità e le sue intenzioni, anche se viene incontrata soltanto nello spazio virtuale. Per tanto, in assenza di social presence, gli altri utenti sarebbero percepiti come oggetti artificiali e non come altri esseri viventi con cui interagire (Oh et al., 2023). Negli ambienti digitali, nonostante l’individuo sia fisicamente da solo, le sue esperienze sono fortemente di natura sociale, grazie alle infinite possibilità di interazione con altri individui. Ciò consente di sperimentare diverse identità, sia individuali che sociali. A tale riguardo, la teoria dell’identità sociale (Tajfel, 1981) cattura l’importanza che un gruppo di appartenenza assume per il singolo e tale rilevanza emerge anche negli spazi digitali (Reicher et al., 1995). I gruppi online possono essere rilevanti anche nella vita quotidiana delle persone, a tal punto che l’identità sociale derivante dall’appartenenza ad un gruppo virtuale diviene una parte importante del sé (Williams, 2006). Ad esempio, sapere che il forum online che frequentiamo viene criticato dai media, ad esempio, per la diffusione di fake news, ci fa sentire a disagio e pronti a difendere la piattaforma digitale alla quale sentiamo di appartenere. In questa direzione, studi condotti agli albori delle interazioni in spazi digitali (McKenna & Bargh, 2000) suggeriscono che l’anonimato visivo, ovvero la mancanza della presenza fisica durante l’interazione mediata attraverso una tecnologia, non renda l'individuo meno consapevole del proprio sé, ma favorisca invece una transizione dal sé personale a quello sociale, rendendo quindi meno saliente l’identità individuale degli utenti, in favore di un’ identità sociale espressione dell’appartenenza al gruppo online (McKenna & Bargh, 2000). Inoltre, secondo Amichai-Hamburger (2013), gli ambienti digitali rispetto a quelli offline, sono sempre accessibili.
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