Come rendere più umani gli altri gruppi: Effetti del contatto sull’infraumanizzazione dell’outgroup
L’infraumanizzazione
Il pregiudizio e il favoritismo per il proprio gruppo sono senza dubbio alcuni dei concetti più studiati dagli psicologi sociali. La ricerca ha messo in luce come le persone abbiano un bisogno fondamentale di appartenere a gruppi valorizzati (Tajfel, 1981) e come esse tendano a preferire il proprio gruppo (ingroup; si veda glossario) ai gruppi estranei (outgroup; si veda glossario). Una conferma in tal senso viene dai celebri studi sui gruppi minimali (Tajfel, Billig, Bundy, & Flament, 1971), che hanno dimostrato come la semplice categorizzazione in ingroup e outgroup sia sufficiente per produrre favoritismo per il proprio gruppo. Nonostante vi siano numerose evidenze che dimostrano come il pregiudizio sia un fenomeno ampiamente diffuso (Dovidio & Gaertner, 2010; Hewstone, Rubin, & Willis, 2002), negli ultimi decenni nelle società occidentali sono emerse norme sociali contrarie alla discriminazione e favorevoli all’uguaglianza tra i gruppi. Per questo, le forme più aperte e manifeste di pregiudizio sono in netto declino1. Ciò non significa, tuttavia, che il pregiudizio stia scomparendo; sembra piuttosto che esso stia cambiando “forma,” tanto da venire espresso in maniera nascosta e socialmente accettabile (Dovidio & Gaertner, 2004; Pettigrew & Meertens, 1995). Questo implica che è sempre più difficile scovare il pregiudizio che si annida in molti ambiti della nostra società, come ad esempio quello occupazionale, educativo, sanitario (Nier & Gaertner, 2012). Un tipo di pregiudizio nascosto, ma proprio per questo particolarmente pericoloso, è rappresentato dall’infraumanizzazione (si veda glossario) dell’outgroup.
L’infraumanizzazione dell’outgroup consiste nel considerare l’outgroup meno umano dell’ingroup (Leyens, Demoulin, Vaes, Gaunt, & Paladino, 2007; Leyens et al., 2000). Ad esempio, le persone tendono ad attribuire in misura maggiore emozioni unicamente umane (emozioni secondarie), come ad esempio la speranza e la vergogna, a membri dell’ingroup che a membri dell’outgroup. Non vi sono, invece, differenze nell’attribuzione di emozioni non unicamente umane (emozioni primarie), come ad esempio la gioia e la rabbia, che vengono assegnate indifferentemente ai membri dell’ingroup e a quelli dell’outgroup (ad es., Demoulin et al., 2004). Sebbene l’infraumanizzazione sia stata osservata in gruppi collocati ai vari livelli della gerarchia sociale (Leyens et al., 2001), evidenze recenti indicano che essa è più forte nei gruppi di alto che in quelli di basso status (Capozza, Andrighetto, Di Bernardo, & Falvo, 2012). L’infraumanizzazione dell’outgroup non è limitata agli adulti, bensì è presente anche nei bambini (Martin, Bennett, & Murray, 2008). È importante notare che le persone non sono generalmente consapevoli della loro tendenza a infraumanizzare l’outgroup (Boccato, Capozza, Falvo, & Durante, 2008; Boccato, Cortes, Demoulin, & Leyens, 2007) e tendono a considerare esemplari ambigui (immagini costruite al computer, in parte uomo in parte scimmia, non immediatamente identificabili come umani o animali) più come appartenenti all’outgroup che all’ingroup (Capozza, Boccato, Andrighetto, & Falvo, 2009).
Sebbene l’infraumanizzazione sia un pregiudizio sottile e poco riconoscibile, essa ha effetti deleteri sulle relazioni tra i gruppi. Ad esempio, le persone che infraumanizzano maggiormente sono più aggressive (Greitemeyer & McLatchie, 2011) e aiutano meno i membri dell’outgroup (Vaes, Paladino, Castelli, Leyens, & Giovanazzi, 2003). È quindi di primaria importanza individuare strategie che permettano di combattere questo tipo di pregiudizio pervasivo e molto pericoloso. Nei prossimi paragrafi presenteremo alcuni studi che, basandosi sull’ipotesi del contatto (Allport, 1954), si sono proposti di esaminare tecniche efficaci di riduzione dell’infraumanizzazione.
Contatto intergruppi e infraumanizzazione
Una delle strategie più note per la riduzione del pregiudizio individuata dagli psicologia sociali è quella del contatto intergruppi. Secondo l’ipotesi del contatto (Allport, 1954; si veda anche Pettigrew & Tropp, 2011), l’incontro tra membri di gruppi diversi, se positivo e strutturato in modo da facilitare la formazione di amicizie durevoli, migliora le relazioni intergruppi. Vi sono ormai centinaia di ricerche che, in quasi sessant’anni, hanno confermato la sostanziale validità dell’ipotesi del contatto in contesti diversi, con gruppi di età differenti e considerando svariate categorie target, quali gruppi etnici, culturali, religiosi, basati sul genere, sull’età, sulla disabilità (per una meta-analisi, si veda Pettigrew & Tropp, 2006). Il contatto intergruppi non riduce solo il pregiudizio manifesto, ma anche quello espresso in forme più sottili e nascoste (ad es., Dhont, Roets, & Van Hiel, 2011; Mahonen, Jasinskaja-Lahti, & Liebkind, 2011). Alcune evidenze recenti mostrano che il contatto riduce addirittura il pregiudizio implicito, vale a dire il pregiudizio che le persone non sono (pienamente) consapevoli di possedere (Turner, Hewstone, & Voci, 2007; Vezzali & Capozza, 2011).
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