L’uomo ingranaggio: L’oggettivazione al lavoro
Tra gli anni ‘50’70 del Novecento, avviene la piena transizione dalla società contadina a quella industriale e cominciano a manifestarsi i sintomi del successivo passaggio alla società postindustriale, caratterizzata dalla prevalenza del settore terziario su quello secondario della produzione di beni manufatti. L’aumentata complessità e specializzazione del sistema sociale e produttivo cambia profondamente il senso del lavoro sia dei vecchi impiegati di concetto sia degli operai della fabbrica. Il lavoro dipendente si frammenta sempre più e si riduce a una serie di operazioni ripetitive, che allontanano il lavoratore dal controllo dell’intero processo e lo abbandonano in una condizione di alienazione tale da fargli percepire l’attività lavorativa come qualcosa di estraneo e ostile. Nel saggio L’uomo è pigro per natura?, il filosofo Erich Fromm (1974/1996) così riassume la sua percezione dell’operaio post-industriale: “Oggi l’operaio è al servizio della macchina, e per questo gli basta solo una minima dose di abilità. Neppure le prestazioni di un operaio “qualificato” sono paragonabili alla perizia di un artigiano medievale. L’operaio è più uno strumento specializzato che un essere umano dotato di un proprio talento. […] È risaputo che l’operaio moderno soffre di una noia tremenda, e odia il proprio lavoro. In quanto persona non viene arricchito ma storpiato dal processo lavorativo, poiché nessuna delle sue facoltà ha la possibilità di esser coltivata e di crescere” (pp. 128-129).
Martha Nussbaum, nel suo famoso lavoro Objectification del 1995, descrive esplicitamente come l’operaio che svolge un lavoro monotono, ripetitivo, parcellizzato e eterodiretto venga oggettivato. L’operaio che lavora a una macchina è visto come strumento, come un’estensione della macchina stessa. Egli non può prendere decisioni, organizzarsi e prendere iniziative; tutti gli operai sono considerati uguali, i loro sentimenti e le loro esperienze individuali, quindi la loro soggettività, vengono annullati. I lavoratori, inoltre, sono interscambiabili sia con altri lavoratori con simili capacità fisiche, sia con macchine. La salute fisica e spirituale dei lavoratori viene erosa gradualmente dalle condizioni di lavoro. La strumentalità, il diniego dell’autonomia e della soggettività, la fungibilità (interscambiabilità) e la violabilità sono quindi le dimensioni individuate da Nussbaum su cui l’operaio è oggettivato. Le altre due dimensioni che secondo l’autrice possono caratterizzare l’oggettivazione, l’inerzia e la proprietà, non appartengono invece al lavoro dell’operaio, che non è trattato come inerte, perché il suo valore consiste precisamente nella sua attività, e non è di proprietà di qualcuno, essendo assunto attraverso un contratto. L’aspetto centrale del fenomeno è, secondo la filosofa, la strumentalità, che diventa pericolosa quando l’altra persona è trattata primariamente e solamente come strumento, come avviene nella condizione dell’operaio.
Gli studi psicosociali sull’oggettivazione
Gli studi psicosociali sull’oggettivazione si sono fino ad ora concentrati su un particolare tipo di oggettivazione che permea la società occidentale: l’oggettivazione sessuale. Riprendendo il pensiero femminista, secondo cui l’oggettivazione sessuale per le donne è un’esperienza quotidiana e inevitabile (ad es., MacKinnon, 1989), gli studi psicosociali hanno preso due differenti direzioni.
La maggior parte degli studi si è focalizzata sulla teoria dell’oggettivazione di Fredrickson e Roberts (1997) e sulle conseguenze dell’auto-oggettivazione. Secondo questa teoria le donne, quando sono oggettivate sessualmente, sono trattate come corpi, o un insieme di parti del corpo, che esistono per l’uso e il piacere degli altri. Il mezzo principale dell’oggettivazione è lo sguardo oggettivante (si veda il glossario), che permea i contesti culturali, nelle quali le donne vivono, e porta le donne a interiorizzare la prospettiva dell’osservatore sul sé, fenomeno che viene chiamato dalle autrici auto-oggettivazione. Le donne imparano a vedere se stesse come un oggetto da valutare in base all’aspetto fisico, e questo porta a una serie di esperienze soggettive conseguenti (come ansia, vergogna e tensione) e ad alcuni disturbi psicologici: depressione, disfunzioni sessuali e disturbi alimentari. Fredrickson e Roberts hanno dato così il via a molti studi sull’auto-oggettivazione e le sue conseguenze (vedi, ad es., Pacilli, 2012 per una rassegna).
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