50 Sfumature di Oggettivazione: Donne e Violenza

Inoltre, un’alta esposizione a media oggettivanti sembra essere associata alla propensione ad oggettivare e molestare le donne oggettivate, o che non si difendono esplicitamente dalle battute sessiste. Contenuti oggettivanti diminuiscono infatti l’empatia provata verso le donne oggettivate e promuovono l’idea dell’uomo dominatore e della donna sottomessa fortemente associata a diverse forme di molestie sessuali (Bernard, Legrand, & Klein, 2016; Blake, Bastian, & Denson 2017; De Judibus & McCabe, 2001; Galdi, Maass, & Cadinu 2014, 2017). Se i media propongono e mantengono un’immagine della donna come oggetto sessuale sono quindi fonti di influenza dei comportamenti negativi nei confronti delle donne: un esempio è “Incel”, gruppo bannato su Reddit in cui uomini misogini si davano supporto (Solon, 2017). Coloro che sono “spettatori” (dei mass media o della molestia), sono infatti a rischio di provare meno empatia verso vittime di molestia, poiché viene attribuita loro meno capacità di provare gioia, dolore e sentimenti morali (Cogoni et al., 2017; Loughnan, Pina, Vasquez, & Puvia, 2013; Pacilli, Pagliaro, Loughnan, Gramazio, Spaccatini, & Baldry 2017). A questo proposito, Hipp e colleghi hanno riscontrato come un responsabile di aggressioni sessuali su cinque giustifichi la propria violenza con commenti che oggettivano e “depersonalizzano” la vittima (“[le persone] le ho usate come sex toys” - “Non era più una persona, solo uno strumento per uno scopo”, Hipp, Bellis, Goodnight, Brennan, Swartout, & Cook, 2015). Allo stesso tempo, se la vittima di una violenza viene presentata come una donna che veste in modo provocante o si auto-oggettivizza, viene giudicata come più colpevole, i suoi aggressori sono meno percepiti come “carnefici”, e le persone sono meno propense a fornire aiuto e soccorso (Bernard et al., 2016; Bernard, Loughnan, Marchal, Godart, & Klein 2015; Cogoni et al., 2017; Pacilli et al., 2017). Ciò suggerisce che una donna percepita come oggetto sessuale non solo è a rischio di molestia, ma anche di essere colpevolizzata. Tuttavia, la mostra “What were you wearing?” in cui vittime di abusi sessuali esibiscono i vestiti che stavano indossando durante l’evento (per esempio, pigiami, jeans e t-shirts), mostra chiaramente come l’abbigliamento non possa essere considerato la causa della violenza sessuale (Vagianos, 2017; Moor, 2010).

Le diverse forme di molestia vanno inoltre ad aumentare la soglia d’attenzione nella donna, rendendola recettiva e ipervigile (Ferraro, 1996; Harris & Miller, 2000): alcuni studi sembrano infatti suggerire come aggressioni e molestie inducano spesso le donne all’auto-oggettivazione (Davidson & Gervais, 2015; Davidson et al., 2015; Fairchild & Rudman, 2008), il che porta spesso ad una propensione ad oggettivare terzi (Davidson et al., 2015; Strelan, & Hargreaves, 2005).

In conclusione, la società e l’opinione pubblica, influenzati dai mass media e da una cultura iper-sessualizzata, non riconoscono né la vittima né l’evento, non provano empatia e non condannano l’azione e il molestatore, bensì la vittima. Allo stesso tempo, la donna oggettivata si ritrova non solo a subire molestie e abusi, ma anche a indurli indirettamente, a perpetrarli, a non riconoscerli in quanto tali, o a scusarli e lasciarli correre con più facilità (Calogero, 2013).

 

Cosa fare?

 

L’oggettivazione è un fenomeno fortemente presente nella società occidentale. Tuttavia, ad oggi, la letteratura non fornisce indicazioni su come ridurre il fenomeno, soprattutto se si parla di situazioni individuali piuttosto che del fenomeno generale.

Per quanto riguarda i fattori di protezione dall’auto-oggettivazione e le sue conseguenze invece, in caso di molestie la letteratura suggerisce un coping attivo, come l’affrontare direttamente il molestatore, parlarne, attribuire la colpa al vero responsabile e non a se stesse, e soprattutto non etichettare l’accaduto come “cosa da niente” (Fairchild & Rudman, 2008). Oltre a ciò, l’educazione alla sessualità, alla salute e al benessere è fra i primi fattori protettivi dell’auto-oggettivazione. Anche i genitori giocano un ruolo fondamentale, incaricati di mostrare ai/alle propri figli/e come non sia il loro corpo a essere “sbagliato” o imperfetto, ma siano i mass media e gli standard condivisi nella nostra società a proporre un modello “sbagliato” di corpo (Sinclair & Mayers, 2004; Sioux, 2009; Tylka & Augustus-Horvath, 2011). Un’altra difesa dall’auto-oggettivazione è la visione consapevole dei contenuti mediatici o, per le più giovani, attività che non implichino solo conseguenze positive per il corpo, ma che “empowerizzino” la ragazza, come ad esempio la partecipazione a movimenti che condannino oggettivazione e sessualizzazione e che promuovano equità e valorizzazione del sé e del proprio corpo (Fairchild & Rudman, 2008; McKay, 2013; Sioux, 2009). Campagne contro la sessualizzazione (#womenNOTobjects) possono infatti indurre le donne ad intraprendere azioni collettive di protesta contro il modo in cui queste vengono rappresentate dai mass media (Guizzo, Cadinu, Galdi, Maass, & Latrofa, 2016).

Da qui sono nati movimenti come “MeToo”, per sostenere le vittime di violenze e molestie sessuali, “time’s up” o “heforshe” che includono anche la lotta contro le ineguaglianze e ingiustizie di genere ad esempio sul lavoro, o “womennotobjects” che apertamente condanna l’oggettivazione nella pubblicità.

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