L’uso delle neuroimmagini nello studio della mente: è tutto oro quel che luccica?

Uso del “modello generale lineare”

 
Il modello generale lineare fa parte di una classe di modelli statistici il cui obiettivo è quello di studiare la dipendenza di una variabile quantitativa da un insieme di variabili qualitative e quantitative. Ammettiamo di voler condurre un esperimento che voglia mettere in luce quali siano le aree cerebrali che ci permettono di riconoscere i volti umani. Durante scansione di risonanza magnetica funzionale presenteremo ai nostri ipotetici soggetti sperimentali una serie di volti, probabilmente ad intervalli di tempo irregolari, così da evitare effetti dovuti ad abituazione, chiedendo ai soggetti di premere un tasto ogni volta che rilevano la presenza sul video di un volto umano. Al termine dell’esperimento, i dati di risonanza magnetica funzionale saranno analizzati al fine di comprendere se esistono uno a più aree del cervello che sistematicamente aumentano la loro attività emodinamica in corrispondenza della presentazione dei volti. Questo tipo di approccio, basato sul cosiddetto Modello Generale Lineare (dall’inglese General Linear Model, GLM; Friston et al., 1995), permette proprio di rilevare corrispondenze univoche (aldilà di un ragionevole grado di incertezza espresso da opportune soglie statistiche) tra la presentazione di quella determinata categoria di stimoli (nel caso del nostro esempio, i volti umani) e uno specifico incremento di attività emodinamica cerebrale in una o più zone del cervello. Questo approccio, che ha costituito il metodo standard per almeno due decenni negli studi di neuroimmagini funzionali permettendo di indagare le basi neurali dei processi cognitivi è tuttavia fortemente limitato dal fatto che, per definizione, si basa su relazioni “lineari”. Dire infatti che il GLM permette di capire se esistono delle aree la cui attività cresce in modo sistematico alla presentazione di quel particolare stimolo vuol dire appunto stabilire una relazione lineare fra attività cerebrale e input esterno, tralasciando però tutte le possibili relazioni non-lineari tramite le quali il nostro cervello può potenzialmente svolgere le sue funzioni.  Se ci fosse ad esempio un’area che si attiva nel momento in cui lo stimolo appare e nel momento in cui lo stimolo scompare, ma non durante la presenza dello stimolo (una sorta di attivazione a forma di ‘U’ rovesciata) il GLM difficilmente rileverebbe il legame tra questa ipotetica area e lo stimolo esterno. E sono vari i fenomeni biologici che seguono un andamento non lineare, ad U rovesciata, come ad esempio il rapporto tra lo stato di attivazione fisiologica (dall’inglese: arousal) e la performance cognitiva: mentre a livelli molto bassi o molto elevati di arousal corrisponde una bassa performance, a livelli intermedi corrisponde in genere una performance elevata (Duffy, 1957).  Naturalmente il GLM rappresenta una semplificazione dei dati: i segnali cerebrali risultano così complessi che appare necessaria, ad oggi, limitare la loro complessità tramite questa assunzione di linearità dei fenomeni. Bisogna però essere consapevoli che quanto riscontrato fino ad oggi potrebbe essere riscritto in un prossimo futuro usando approcci più complessi.

 

Limiti intrinseci dell’approccio sottrattivo

 

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