Donne al lavoro. Una battaglia da combattere in primo luogo con se stesse.

A cominciare dagli obiettivi professionali che le donne si danno durante i loro studi. Una serie di ricerche ha indagato fino a che punto i concetti di istruzione e maternità sono incorporati nel concetto di sé delle studentesse universitarie. Nello specifico è stato valutato l’identificazione con le aspirazioni accademiche e familiari (Hai, Devos, e Dunn, 2014). Uno dei presupposti chiave di questo studio è che queste aspirazioni non sono per loro natura in contrasto tra di loro e che quindi una ragazza possa avere alte aspirazioni professionali e alte aspirazioni familiari. Sulle misure che riflettono i processi di identificazione e scelta (a livello esplicito, e quindi chiedendo in modo diretto alle studentesse quali fossero le loro aspirazioni), le studentesse universitarie davano leggermente una maggiore enfasi ai loro obiettivi accademici rispetto a quelli familiari. Sorprendentemente però le quando queste aspirazioni venivano misurate a livello implicito (ovvero attraverso test che misurano le associazioni automatiche che facciamo tra noi stessi ed alcune scelte di vita) erano le aspirazioni familiari a risultare la componente più importante per il sé e che le ragazze vivevano un conflitto tra aspirazioni familiari e professionali. Questi studi hanno chiaramente mostrato l’influenza pervasiva e distorsiva che le distinzioni di genere convenzionali hanno ancora sul concetto di sé delle studentesse universitarie, quanto le renda di fatto meno libere di determinare cosa vogliono essere, e chi vogliono essere nella loro vita.

Quando le donne terminano gli studi ed entrano nel mondo del lavoro, gli stereotipi di genere naturalmente diventano compagni stabili e subdoli sabotatori nei percorsi di carriera. Nell’esaminare oltre 40 anni di ricerche sugli stereotipi di genere negli Stati Uniti, nel Regno Unito, in Germania, in Cina e in Giappone, Schein (2001) conclude che il “pensare ai dirigenti – pensare agli uomini” è un'equazione universale che è rimasta praticamente inalterato dal 1973, nonostante gli enormi cambiamenti nella composizione della forza lavoro globale. Il tempo passa, il mondo cambia, ma gli uomini sono giudicati (sia dagli uomini che dalle donne) stabili, forti, assertivi e realizzatori pragmatici del lavoro. Mentre le donne sono spesso viste come emotivamente instabili, deboli e timide. Quando pensiamo ad un dirigente lo pensiamo automaticamente e tendenzialmente come dotato delle caratteristiche, atteggiamenti e temperamenti che stereotipicamente si associano agli uomini e non a quelli delle donne. I dirigenti vengono pensati così anche dalle stesse donne ed è facile immaginare quanto questo renda più difficili gli avanzamenti di carriera al femminile. Non solo perché le decisioni di avanzamento si basano su questi stereotipi e quindi è più facile che un HR scelga un uomo, ma anche perché le donne stesse si convincono inconsapevolmente di non essere adatte a ruoli di questo tipo, introiettando per insicurezza o scrupolo un sabotatore maschilista dentro di sé. In uno studio di Powell, Butterfield e Parent (2002), infatti, i partecipanti associavano ad un buon manager caratteristiche prevalentemente maschili, indipendentemente del sesso, l’età, l’istruzione e l’esperienza lavorativa. Quindi a parità di competenze sia uomini che donne considerano gli uomini più adatti ad un ruolo manageriale. Queste convinzioni legate al “lack of fit”, ovvero alla sensazione di non essere la persona adatta ad una data posizione, scoraggiano le donne a formulare delle aspirazioni di carriera ambiziose. In una ricerca condotta dal sito Career Builder nel 2017 si è evidenziato che gli uomini hanno ancora aspirazioni sulla loro carriera molto più elevate rispetto alle donne. Nello specifico, gli uomini che aspirano a diventare membri di un board o AD di un’azienda sono più del doppio delle donne. Inoltre sono oltre il 22% le donne che si aspettano di rimanere in un inquadramento di primo livello, mentre gli uomini sono solo il 10%.

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