Realtà Virtuale e psichedelia: le potenzialità delle esperienze tecnodeliche alla conquista della mente

“La visione psichedelica è realtà per me” -  John Lennon
 
Gli psichedelici sono una classe di composti, presenti in natura ma anche sintetizzabili in laboratorio, la maggioranza dei quali agisce sul cervello replicando l'azione della serotonina, cioè uno dei messaggeri chimici tramite cui i neuroni comunicano normalmente tre loro (Nichols, 2004). I più noti sono probabilmente l’LSD e i principi attivi dei “funghetti” allucinogeni, del peyote, e del’ayahuasca. Il termine “psichedelici,” che letteralmente significa “rivelatori della mente” (Osmond, 1957), si riferisce ai loro effetti di alterazione della coscienza: sono infatti in grado di modificare la percezione non solo dell’ambiente (rendendola più vivida e dettagliata o addirittura facendo percepire cose non realmente presenti) ma  anche del proprio corpo e persino del proprio “sé,” fino ad indurre, a dosi elevate, la sensazione di perdere la propria individualità e divenire tutt’uno con l’universo (Hartogsohn, 2018).  Negli anni Sessanta, l’uso di sostanze psichedeliche divenne un’icona della controcultura hippie, venendo utilizzate come strumenti per sfidare le convenzioni, ampliare la percezione e favorire esperienze percepite come “spirituali” (Huxley, 1968; Leary et al., 2017). Altrettanto rilevante è stato l’impatto della psichedelia sulla comunità scientifica dell’epoca; numerosi sono stati infatti gli studi e le osservazioni sulle potenzialità di queste sostanze per il trattamento di varie psicopatologie (Naranjo, 1974; Shulgin & Shulgin, 1991). Tuttavia l’associazione degli psichedelici con la controcultura hippie ha fatto sì che negli anni queste sostanze subissero una sistematica stigmatizzazione e venissero equiparate a livello legale a droghe d’abuso come l’eroina o la cocaina (ad esempio, attraverso il “Testo unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope”), nonostante gli psichedelici non causino dipendenza fisica e siano nettamente più sicuri (Carbonaro et al., 2016; Nichols, 2004; Nutt et al., 2007). Il risultato è stata una drastica interruzione della ricerca psichedelica. Nell’ultimo decennio, però, si è assistito a un risorgere della sperimentazione scientifica e della ricerca sulle sostanze psichedeliche (Yaden et al., 2021). Tale fenomeno, denominato Rinascimento Psichedelico, ha risollevato l’interesse verso il potenziale terapeutico degli psichedelici. Ad esempio, è stato riscontrato che la terapia psichedelica sarebbe efficacie per trattare condizioni come la depressione (Carhart-Harris et al., 2017; Griffith et al., 2016), l’ansia (Grob et al., 2011; Griffith et al., 2016) e il disturbo da stress post-traumatico (Sessa, 2017; Sessa et al., 2019). Per spiegare questi effetti sono stati proposti diversi meccanismi (si veda per una rassegna Swanson, 2018). La maggior parte di essi si basa sull’idea, già avanzata nel secolo scorso (Huxley, 1961), secondo la quale la consapevolezza e la capacità di interpretazione degli stimoli esterni viene limitata da processi di selezione psicofisiologici, che escludono una grande quantità di informazioni processate esclusivamente a livello subconscio (Marshall, 2005). La nostra percezione sarebbe quindi limitata a un “mondo costruito dalle nostre percezioni e pensieri quotidiani, biologicamente utili e socialmente condizionati” (Huxley, 1961; p. 214). Le sostanze psichedeliche andrebbero dunque ad allargare le maglie di questo sistema di filtraggio automatico (Huxley, 1961; Marshall, 2005). Una rielaborazione più recente e rigorosa di questa idea è basata sul modello della codifica predittiva (Friston, 2010). Secondo tale modello, la funzione principale del cervello umano sarebbe quella di formulare ipotesi sul mondo circostante basandosi su credenze ed esperienze passate. In altre parole, il cervello umano sarebbe in grado di creare modelli predittivi che vengono costantemente applicati per interpretare le nostre percezioni. A una maggiore capacità predittiva corrisponderebbe infatti una maggiore efficienza nel rispondere all’ambiente, a discapito però della quantità di informazioni sensoriali percepite a livello cosciente; infatti, arriverebbero alla coscienza solo le informazioni in contraddizione con i modelli predittivi (Friston, 2010). Sembra però che le sostanze psichedeliche siano in grado di attenuare l’influenza di tali modelli predittivi (Carhart-Harris & Friston, 2019). Ciò permetterebbe a un numero maggiore di stimoli di raggiungere la coscienza, consentendo dunque un’esperienza del mondo più ricca e, per citare Huxley (1968), aprendo così “le porte della percezione”. Più in generale, gli psichedelici interferirebbero con i meccanismi che mantengono stabili determinati modelli interpretativi della realtà e le connessioni neurali alla base di essi, favorendo in tal modo nuove interpretazioni e nuove connessioni neurali, fino a destabilizzare credenze patologiche sul mondo che si sono consolidate e “iper-stabilizzate” (Carhart-Harris & Friston, 2019). L’azione terapeutica degli psichedelici sarebbe riconducibile soprattutto al disgregamento di una rete di connessioni neurali chiamata Default Mode Network (Carhart-Harris et al., 2012; Carhart-Harris & Friston, 2019; Lebedev et al., 2015). Tale rete risulta molto attiva quando il cervello non si trova impegnato in compiti specifici, e in particolare nei momenti di introspezione (Carhart-Harris & Friston, 2010). È stato ipotizzato che l’iperattivazione del Default Mode Network, caratteristica di persone affette da depressione, rappresenterebbe il correlato fisiologico dei pensieri ossessivi e dell’eccessivo rimuginare (Berman et al., 2011). Disconnettendo tra loro i nodi del Default Mode Network, gli psichedelici avrebbero quindi il potenziale di indebolire tali meccanismi di pensiero dannosi.

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