Quando la deumanizzazione ferisce: Attribuzioni di umanità e violenza

 “Tutto ciò che rende gli altri meno umani rende meno umani anche noi.” (Desmond Tutu, 1999).

 

Nel Febbraio 1999, a New York, Amadou Diallo, un giovane africano immigrato negli Stati Uniti, fu ucciso da quattro poliziotti che spararono 41 colpi di pistola, colpendo Diallo per 19 volte. L’unico oggetto ritrovato addosso al ragazzo fu un portafogli; con tutta probabilità, Diallo lo stava estraendo per mostrare i documenti. Nel 2008, a Parma, Emmanuel Bonsu, un ragazzo ghanese di 22 anni, fu aggredito da sette agenti di polizia municipale, che, durante un’operazione antispaccio in borghese, lo avevano scambiato per il palo di un pusher. Il giovane stava solo passeggiando nel parco di fronte alla sua scuola, in attesa che cominciasse l’ora di lezione.

Episodi come questi fanno emergere diversi interrogativi. In primo luogo, come mai le vittime sono spesso persone appartenenti a gruppi svantaggiati? Se Amadou Diallo fosse stato bianco i poliziotti avrebbero sparato senza esitare? Se Emmannuel Bonsu non fosse stato nero, gli agenti lo avrebbero picchiato? Probabilmente, questi episodi sono dipesi dal fatto che Amadou e Emmanuel appartenevano a gruppi stigmatizzati. E ancora, perché le reazioni sono così estreme?

La ricerca in Psicologia Sociale ha cercato di spiegare fenomeni come quelli prima descritti; si è trovato che il pregiudizio, le percezioni di minaccia (Correll, Park, Judd, & Wittenbrink, 2002; Payne 2001) e l’esposizione ai mass media (Latrofa, Vaes, & Arcuri, 2012) influenzano significativamente l’inclinazione alla violenza verso gruppi svantaggiati. Comunque, il ruolo dei processi di deumanizzazione negli episodi di violenza è stato poco indagato.

Alcuni autori (vedi Bandura, 1999; Opotow, 1990) hanno proposto che la negazione di umanità agli altri possa costituire una strategia efficace per giustificare azioni violente in contesti caratterizzati da intenso conflitto. Tuttavia, studi recenti (ad es., Pereira, Vala, & Leyens, 2009) hanno mostrato come l’attribuzione di una minore umanità possa portare a comportamenti discriminativi anche in assenza di conflitti manifesti. Obbiettivo di questo contributo è di analizzare la relazione tra attribuzioni di umanità e violenza nei confronti di membri di gruppi estranei.

Attribuzioni di umanità nei rapporti intergruppi

Recentemente in Psicologia Sociale è cresciuto l’interesse per una forma particolare di pregiudizio: la deumanizzazione di gruppi e persone. Deumanizzare significa percepire l’altro come non pienamente definito da tratti che sono esclusivi degli esseri umani. Numerose ricerche (si veda Leyens, Demoulin, Vaes, Gaunt, & Paladino, 2007) hanno mostrato come le persone tendano ad assegnare più umanità al proprio gruppo (ingroup) che ai gruppi estranei (outgroup). Questo sembra essere un processo universale, sottile e inconsapevole, che accompagna gli individui nella quotidianità (si veda, ad es, Eyssel & Ribas, 2012; Leyens et al., 2007).

L’attribuzione agli outgroup di uno status umano inferiore è stata rilevata con vari metodi: all’outgroup si assega un numero inferiore di emozioni unicamente umane (ad es., malinconia, orgoglio; vedi Leyens et al., 2007); all’outgroup si assegnano meno i tratti distintivi dell’umanità (ad es., razionalità, moralità; si veda Capozza, Trifiletti, Vezzali, & Favara, 2012); all’outgroup si assegnano meno i tratti fondamentali della natura umana (ad es., emotività, calore; Haslam, Loughnan, Kashima, & Bain, 2008). Oltre ad essere percepiti meno umani, i gruppi estranei possono essere addirittura assimilati all’animalità (Boccato, Capozza, Falvo, & Durante, 2008; Capozza, Andrighetto, Di Bernardo, & Falvo, 2012; Capozza, Boccato, Andrighetto, & Falvo, 2009) o a macchine e robot (Loughnan, Haslam, & Kashima, 2009).

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