L’uomo ingranaggio: L’oggettivazione al lavoro

Chi di noi non ricorda le immagini di Charlie Chaplin in Modern Times (1936)? Un operaio lavora a una catena di montaggio. Il suo unico compito è quello di avvitare un bullone. Tutt’attorno altri operai che svolgono azioni ripetitive e standardizzate. Non si può perdere il ritmo dettato dallo scorrere del nastro trasportatore, che implacabile continua il suo corso. L’operaio non può che adattarsi come tutti gli altri. Il movimento diventa meccanico e automatico, difficile distinguere l’uomo dalla macchina, tanto che Chaplin, nell’immagine più famosa e metaforica del film, non riuscendo a stare al passo della produzione serrata, verrà inglobato dagli ingranaggi della macchina stessa. L’uomo diventa un oggetto, uno strumento fra tanti al servizio della produzione. Sono immagini che hanno segnato la storia e animano i nostri ricordi. Nonostante molti anni siano passati dal 1936, tutt’oggi esistono lavori che implicano movimenti ripetitivi e meccanici, dettati dai ritmi serrati delle macchine (Hodson & Sullivan, 2011), in cui possiamo riscontrare il fenomeno dell’oggettivazione: una forma di deumanizzazione sottile e quotidiana che consiste nel vedere e nel trattare una persona come un oggetto (Volpato, 2011). 

La maggior parte delle ricerche psicosociali ha studiato l’oggettivazione in ambito sessuale; solo in tempi recenti alcuni studi si sono proposti di ampliare il campo di indagine di tale fenomeno, fornendo le prime evidenze empiriche dell’oggettivazione in ambito lavorativo.

Il lavoro oggettivante

Le analisi teoriche sull’oggettivazione causata dal lavoro sono svariate e nascono con la stessa società industriale. 

Karl Marx (1844/1980) sosteneva già che il lavoro nella società capitalista non è un’attività libera in cui l’uomo può manifestare la sua umanità, ma rappresenta piuttosto un’imposizione esterna che depriva il lavoratore dalla sua autonomia e del prodotto stesso del suo lavoro. L’umanità è negata perché il lavoratore è valutato in termini di ciò che produce e del valore che i prodotti hanno per gli altri. Lo stesso lavoratore giunge ad autovalutarsi in base alla produttività, più che in base alle qualità che definiscono l’umanità di una persona. Nelle società preborghesi, ogni bene prodotto serviva per soddisfare i bisogni umani, aveva un valore di utilità per l’uomo e per la sua sopravvivenza; nell’economia borghese, invece, il prodotto diventa merce; ciò che viene prodotto non è quindi più finalizzato al singolo, bensì al mercato e alla produzione di ricchezza (Marx, 1867/1964). Il prodotto non appartiene più all’operaio-uomo, ma è un ente che esiste fuori di lui, estraneo e quasi nemico, dotato di una potenza avversa e di leggi proprie. Secondo Marx, tanto più il prodotto si arricchisce, tanto più l’operaio si impoverisce, in un processo di trasformazione che lo rende senza spirito, senza dignità, senza valore e “schiavo della natura” (Marx, 1844/1980, p. 300).

Nonostante le critiche di Marx, la società industriale ha proseguito sulla via della meccanizzazione. I nuovi principi, ad esempio quello dell’operaio bue (Taylor, 1911), di quella che verrà chiamata l’organizzazione scientifica del lavoro, vengono formulati per la prima volta da Taylor e trovano la loro piena realizzazione nella catena di montaggio, introdotta nell’industria da Ford (1922/1980). Lo scopo della catena di montaggio è ridurre al minimo i movimenti dell’operaio, costringendo tutti, i più veloci e i più lenti, a lavorare al ritmo dettato dal nastro trasportatore, riducendo ritardi o sovraccarichi e, quindi, i tempi di produzione. Questi principi vengono così, in seguito, criticati da Gramsci: “Taylor […] esprime con cinismo brutale il fine della società americana: sviluppare nel lavoratore al massimo grado gli atteggiamenti macchinali e automatici, spezzare il vecchio nesso psico-fisico del lavoro professionale qualificato che domandava una certa partecipazione attiva dell’intelligenza, della fantasia, dell’iniziativa del lavoratore e ridurre le operazioni produttive al solo aspetto fisico macchinale.” (Gramsci, 1934/1975, pp. 2165-2166). L’umanità che si realizzava nella “creazione produttiva” tipica del lavoro artigianale, in cui il lavoro era strettamente legato all’arte e l’oggetto rifletteva la personalità del lavoratore, viene annullata dalle iniziative degli industriali come Ford e Taylor.

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