La Negazione della Moralità nel Linguaggio degli Insulti

Ellemers e collaboratori (per una rassegna, vedi Ellemers, Pagliaro, & Barreto, 2013) hanno approfondito questa questione studiando la moralità come dimensione fondamentale per la regolazione dei comportamenti all’interno dei gruppi e per la valorizzazione dell’ingroup. Secondo questo approccio, la moralità si riferisce a comportamenti corretti e appropriati verso gli altri, e può essere definita da tratti quali onestà, sincerità e affidabilità. A sua volta, la moralità si contrappone alla socievolezza, intesa come l'abilità di formare connessioni sociali con gli altri e definita da caratteristiche quali amichevole e piacevole, e alla competenza, che riguarda l’efficacia e l’abilità delle persone di svolgere con successo determinati compiti (Leach, Ellemers, & Barreto, 2007). L'importanza di tali dimensioni è spiegata dal fatto che, per sopravvivere, le persone devono comprendere se gli altri siano animati da buone o cattive intenzioni verso di loro, ossia se siano morali e socievoli, così come se siano in grado di mettere in atto tali intenzioni, ossia se siano competenti (vedi anche Fiske, Cuddy, & Glick, 2007). Tuttavia, numerosi studi hanno dimostrato che la moralità, rispetto a socievolezza e competenza, è la dimensione predominante attraverso cui giudichiamo sia gli individui sia i gruppi. Infatti, le persone si identificano maggiormente con gruppi che considerano morali e tendono ad allontanarsi dal proprio gruppo quando questo è percepito come immorale (Leach et al., 2007). Questo accade poiché una persona immorale appartenente al proprio gruppo è minacciosa per l’immagine e per il raggiungimento degli obiettivi del gruppo stesso (Brambilla, Sacchi, Pagliaro, & Ellemers, 2013). La moralità è più importante di competenza e socievolezza anche quando dobbiamo cercare informazioni o formarci un’impressione sugli altri (Brambilla, Sacchi, Rusconi, Cherubini, & Yzerbyt, 2011; Wojciszke, 2005). Ma cosa accade quando la mancanza di moralità è espressa nei termini delle “parolacce” già indicate dai bambini di Piaget?

Il linguaggio degli insulti

Figura 2. “Insults!”. Foto di Mauricio Balvanera, distribuita con licenza Creative Commons. http://www.flickr.com/photos/maubrowncow/Figura 2. “Insults!”. Foto di Mauricio Balvanera, distribuita con licenza Creative Commons. http://www.flickr.com/photos/maubrowncow/

Gli insulti rappresentano una pratica sociale relativamente frequente nelle interazioni tra persone, tesa a rendere l’altro oggetto di disprezzo (van Oudenhoven et al., 2008), negando ciò che è a lui vicino e caro (Semin & Rubini, 1990) e colpendolo nell’onore e nella reputazione (Rodriguez Mosquera, Manstead, & Fischer, 2002). Se l’obiettivo dell’abuso verbale è in ogni caso quello di ferire le persone contro cui è diretto, i termini utilizzati differiscono ovviamente per il contenuto a cui fanno riferimento, il significato e il grado in cui sono effettivamente percepiti come un’offesa dalla persona che ne è oggetto. Già E. R. Leach (1964) aveva individuato tre categorie principali di oscenità: le parole ‘sporche’, che includono i riferimenti al sesso e agli escrementi, la blasfemia e i termini che equiparano un essere umano ad un animale. 

Una tassonomia più articolata è stata in seguito proposta da Semin e Rubini (1990), che hanno distinto tra insulti individualistici, insulti relazionali e imprecazioni. Il primo tipo di insulti fa riferimento alla negazione di proprietà individuali ‘normali’ di tipo intellettivo (ad es., “stupido”) o fisico (“ciccione”), ma anche alla messa in atto di comportamenti socialmente indesiderabili (“screanzato”). A questa categoria appartengono anche gli insulti relativi a organi o attività sessuali (“vaffanculo”) e le offese che fanno ricorso a analogie tra la persona e gli animali (“oca”). Mentre tutti questi epiteti sono centrati sull’individuo contro cui sono diretti, gli insulti relazionali fanno riferimento alle persone a lui/lei vicine, ad esempio chiamando in causa relazioni incestuose o sessuali con familiari (“figlio di troia”). In questa seconda categoria rientrano anche gli insulti che coinvolgono i gruppi di appartenenza (“sporco ebreo”). Infine, l’ultima categoria comprende le imprecazioni riguardanti le figure religiose e i termini che fanno genericamente riferimento a organi o atti sessuali (“che palle”).  

Come argomentato da Semin e Rubini (1990), l’analisi degli insulti rende possibile mettere in luce la diversa costruzione culturale del concetto di persona – come individuo singolo o come membro di un gruppo – in contesti culturali differenti. Infatti, gli autori hanno mostrato che nell’Italia del Sud, che rappresenta un contesto a orientamento collettivista in cui il gruppo di appartenenza, i suoi obiettivi e le sue norme sono più importanti rispetto a quelli dell’individuo (Hofstede, 1980; Triandis, 1988; vedi anche Schneider & Schneider, 1976), la proporzione di insulti di tipo relazionale è maggiore che in Italia centrale o in Italia del Nord. Viceversa, in Italia del Nord, caratterizzata da un orientamento culturale che valorizza l’individuo rispetto al gruppo (Triandis, 1988), sono più numerosi gli insulti che implicano la negazione di proprietà individuali. Sebbene in questo studio gli insulti siano principalmente distinti in base al fatto che si riferiscano al singolo o alla sua rete di relazioni, i contenuti delle diverse sottocategorie lasciano intuire come essi tocchino tutte le principali dimensioni di giudizio, mirando ad attaccare l’altro sul piano della moralità ma anche delle abilità intellettuali e sociali. 

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