È difficile perdonarti... eppure ne vale la pena!

Il modello piramidale (Worthington, 1998) per raggiungere il perdono delinea invece un processo scandito da 5 tappe, riassumibili nell’acrostico inglese REACH: ricordare (recall, R) l’offesa, identificarsi empaticamente (empathy, E) con chi ha offeso, offrirgli altruisticamente (altruism, A) il dono del perdono, impegnarsi (commit, C) a perdonare e tenere saldo (hold, H) il proprio proposito. 

La tendenza a perdonare è innata o appresa?

Oltre ad imparare a perdonare un’offesa specifica, è anche possibile apprendere ad essere tendenzialmente inclini al perdono, a prescindere dalle offese subite? O si tratta di una predisposizione già delineata alla nostra nascita? In altri termini, se pensiamo a uomini e donne come Martin Luther King, Madre Teresa, il Mahatma Ghandi e Nelson Mandela, che sembrano aver incarnato in modo paradigmatico questo tratto, si può dire che siano nati con un’indole sostanzialmente incline al perdono o l’hanno sviluppata ed appresa a partire dalle circostanze e dagli incontri che hanno caratterizzato la loro vita? 

Sia le loro vicende personali, sia gli studi accademici sembrano indicare che l’ambiente familiare, sociale e culturale di cui facciamo parte condiziona la nostra propensione al perdono, influendo sia sulla modalità di vivere che di intendere questo delicato processo. Una ricerca longitudinale condotta su triadi famigliari composte da padre, madre e figlio/a adolescente ha, ad esempio, provato che più i genitori sono inclini a perdonare il proprio figlio/a più questi diventa a distanza di un anno maggiormente propenso/a a perdonarli a propria volta (Maio, Thomas, Fincham, & Carnelley , 2008). Non solo, da adulti le persone assomigliano più ai loro genitori nella propensione a perdonare il coniuge che non al coniuge stesso (Paleari, Donato, Iafrate, & Regalia, 2009) e hanno un’idea del perdono molto simile a quella dei genitori (Mullet, Riviere, & Munoz-Sastre, 2006).  

Studi cross-culturali evidenziano inoltre che gli individui sono più inclini a concedere il perdono, tanto ai loro cari che alle persone sconosciute, soprattutto se sono cresciuti in paesi collettivisti asiatici, africani e latino-americani; meno se vengono educati in paesi individualisti nordamericani ed europei (Karremans et al., 2011; Neto & Da Conceição Pinto, 2010; Suwartono, Prawasti, & Mullet, 2007). A differenza delle culture individualiste, quelle collettiviste, valorizzano maggiormente l’armonia, gli obblighi e le reazioni sociali e incentivano quindi il perdono, anche nei confronti di estranei, quale strumento utile per favorire il benessere e la coesione sociale. Prevedono di conseguenza che un più ampio spettro di soggetti siano passibili di perdono. Rispetto ai francesi, ad esempio, gli uruguayani ed i congolesi ritengono che si possa perdonare non solo quello che è noto essere il responsabile di un’offesa, ma anche i suoi parenti o amici, gli offensori che non sono stati ancora identificati come tali, i morti, le istituzioni (quali lo Stato e la Chiesa) o le associazioni (Bagnulo, Muñoz Sastre, & Millet, 2009; Kadima Kadiangandu, Gauché, Vinsonneau, & Mullet, 2007).

Nonostante queste differenze familiari e culturali, il perdono pare comunque universalmente diffuso quale mezzo utile alla salvaguardia dei rapporti più stretti. Gli studi etnografici indicano che il perdono è un fenomeno sociale riscontrabile in ben il 93% delle culture, ove viene considerato uno strumento appropriato per risolvere offese e conflitti verificatesi tra coniugi, tra genitori e figli, tra vicini e comunità in lotta. Qualcosa di simile al perdono sembra del resto occorrere persino tra i nostri parenti più stretti, le scimmie e i primati, inclini ad esibire comportamenti conciliatori nei confronti di coloro coi quali hanno forti legami affiliativi (Aureli, van Schaik, & van Hoof, 1989; Cords & Thurnheer, 1993). Questi dati non solo avvalorano l’ipotesi di una componente innata, oltre che appresa, del perdono, ma ancora una volta testimoniano la valenza adattiva del processo.

Il bisogno di affiliazione ci spinge ad aprirci e affidarci agli altri, esponendoci però a ferite anche profonde, un po’ come i porcospini di Schopenhauer che, per difendersi dal freddo di una gelida giornata d’inverno, si avvicinano tanto gli uni agli altri da pungersi dolorosamente coi loro aculei. Per far fronte a tali ferite è possibile intraprendere il viaggio del perdono che, come ci ricorda David Lynch, è lento, faticoso e, diversamente dalla vendetta, non può essere delegato ad altri. Coinvolge infatti in profondità diversi aspetti della nostra psiche: i pensieri sull’offesa e su chi l’ha commessa, che devono farsi meno insistenti e più positivi, i sentimenti, che anziché dominati dal rancore e dalla paura devono lasciare spazio all’empatia, le motivazioni sottostanti il nostro agire, che devono divenire più benevole e generose. Per quanto questi cambiamenti siano personali, ciò non toglie che possano essere agevolati dagli altri, primo fra tutti l’offensore, e dalla buona qualità dei rapporti avuti con loro. A fronte delle difficoltà che comporta, il perdono, se elargito con una certa accortezza e non equivocato, si rivela tuttavia uno strumento particolarmente prezioso per salvaguardare le relazioni e il nostro benessere, messi a dura prova delle offese che inevitabilmente arrechiamo e subiamo. 

Glossario

Attribuzioni: Processi cognitivi attraverso i quali si identificano le cause e le responsabilità di eventi o comportamenti.

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