È difficile perdonarti... eppure ne vale la pena!

Queste considerazioni rimandano alla delicata questione delle modalità più opportune per comunicare il perdono e di come esso possa venire accolto dall’individuo al quale è diretto. Gli studi empirici sull’argomento, per la verità numericamente ancora molto limitati, suggeriscono che il rapporto vittima-offensore possa trarre maggiore benefici dalla concessione del perdono quando questo viene comunicato in modo diretto, attraverso asserzioni verbali o segnali non verbali espliciti, che accrescano la percezione di vicinanza ed intimità (per esempio abbracciando l’altro, sorridendogli o dicendogli “ti perdono”). Al contrario il rapporto può risultare indebolito e venir percepito come meno soddisfacente quando la manifestazione del perdono è accompagnata da clausole e condizioni (“ti perdonerò se…” ) che possano apparire, agli occhi dell’offensore manipolatorie, indici di scarsa fiducia e lesive della propria immagine personale (Waldron & Kelley, 2008). Se a ciò si aggiunge che, soprattutto laddove non sia stato richiesto o corrisposto da atti analoghi di clemenza, il perdono tende ad accrescere lo stress, il senso di colpa, di indebitamento e di incompetenza di chi lo riceve, si può capire l’importanza di agire con una certa accortezza nel comunicarlo (Kelln & Ellard, 1999; Paleari, Regalia, & Fincham, 2011). 

Pur con queste difficoltà, nel complesso il perdono sembra comunque avere risvolti prevalentemente positivi. A partire da questa premessa la ricerca si è prodigata al fine di individuare la variabili che più influiscono sulla sua concessione cosicché, quando opportuno, sia possibile incentivarlo facendo leva su di esse. 

Quali fattori ostacolano il perdono? Quali lo facilitano? 

Nel corso degli ultimi quindici anni, si é andata accumulando una considerevole mole di evidenze empiriche in merito ai predittori più significativi del perdono, buona parte delle quali sono state recentemente sintetizzate in un lavoro realizzato da Fehr, Gelfand e Nag (2010): questi autori hanno considerato 175 studi su questo tema, per un campione totale di oltre 26.000 soggetti. Da tale lavoro emerge che tre ordini di variabili sono significativamente correlati all’elargizione del perdono: i processi affettivo-cognitivi, che la vittima sviluppa in relazione all’offesa patita e a chi l’ha perpetrata, i comportamenti riparatori dell’offensore e la qualità del rapporto che, prima del verificarsi dell’offesa, eventualmente sussisteva tra vittima ed offensore. È più probabile che il perdono venga accordato quando la vittima, senza disconoscere le responsabilità dell’offensore, riesce col tempo a mitigare le attribuzioni sfavorevoli ed i giudizi di biasimo nei suoi confronti, considerando l’eventuale presenza di circostanze attenuanti; quando, pur ripensando all’accaduto e cercando di trovare un senso in esso, evita di rimuginare continuamente sull’offesa, di lasciarsi sopraffare dal suo ricordo e di vivere in balia di esso; quando riesce ad essere empatica e a nutrire compassione nei confronti del proprio offensore, percependolo più come un essere umano simile a sé, limitato e bisognoso, che come una minaccia per il proprio io. Questi processi vengono agevolati se l’offensore offre alla vittima delle scuse sincere, dettate da un autentico ravvedimento, anziché da motivi opportunistici di convenienza, e si comporta di conseguenza, cercando di porre rimedio al male fatto. Chi dimostra di saper riconoscere la scorrettezza del proprio agire, di soffrirne e di impegnarsi per porvi rimedio dà infatti prova della propria moralità e offre rassicurazioni circa l’eventualità che possa in futuro reiterare offese analoghe. Gemma Capra, vedova del commissario Calabresi, riconosce di essere stata facilitata nel perdonare Leondardo Marino, uno dei responsabili della morte del marito, dal suo pentimento autentico e dal suo travaglio interiore che lo hanno indotto a costituirsi pur non essendo indagato. Dice di lui: “Marino è un vero pentito. Infatti non era in carcere e non ha deciso il pentimento per avere sconti di pena. (…) Marino, che dopo essersi costituito ha subìto le peggiori angherie, è un uomo che ha molto sofferto e siccome la sofferenza, anche se ha origini diverse, accomuna, io mi sono sentita vicina a lui e ho sentito che dovevo perdonarlo. (…) Molto più difficile è perdonare gli altri responsabili dell'omicidio che non chiedono perdono e non lo vogliono” (Gemma Capra, 1999).  

Le reazioni funzionali al perdono appena descritte, ovvero il pentimento dell’offensore e le reazioni afffetivo-cognitive della vittima a lui favorevoli, sono più ricorrenti nei casi in cui, antecedentemente al verificarsi dell’offesa, vittima e offensore erano uniti da un rapporto intimo, soddisfacente e coinvolgente (“si perdona finché si ama” asseriva in modo provocatorio lo scrittore francese François de La Rochefoucauld). Il fatto di avere alle spalle un legame consolidato, abitualmente percepito come fonte di benessere e di felicità, motiva infatti ancor più le parti coinvolte a fare il possibile per recuperarlo. 

Intervenendo soprattutto sulle reazioni affettivo-cognitive della vittima è stato possibile delineare dei protocolli di intervento efficaci nel promuovere il perdono per una specifica offesa sofferta. Tra i più noti, si possono ricordare quello di Robert Enright (2001) e il modello piramidale di Everett Worthington (1998). Il primo si articola in quattro fasi principali – riconoscere l’offesa subita e la rabbia provata, decidere di perdonare, lavorare su di sé per raggiungere il perdono, approfondire il senso del perdono e le sue conseguenze – ciascuna delle quali a propria volta composta da diverse unità di trattamento. 

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