È difficile perdonarti... eppure ne vale la pena!

Infine, benché una riappacificazione autentica necessita del perdono della vittima come sua premessa irrinunciabile (in assenza della quale si parla di semplice riunione), il perdono può sussistere, perlomeno nelle nostre culture occidentali, anche in assenza di riconciliazione. Esistono circostanze in cui non è auspicabile riconciliarsi con chi si è perdonato, poiché così facendo si perpetuerebbe e alimenterebbe un legame fonte di sofferenze. Gli studi clinici (per alcune rassegne o meta-analisi si veda Wade, Johnson, & Meyer, 2008; Wade, Worthington, & Meyer 2005) ci dicono, a questo proposito, che il perdono è salutare, anche nel caso di abusi familiari o traumi particolarmente gravi, purché la vittima non lo confonda con la riconciliazione, con la necessità di ristabilire una relazione che potrebbe esporla a nuove violenze, compromettendone ulteriormente l’incolumità e la salute psicofisica. Anche laddove una riconciliazione sia opportuna, non è inoltre detto che riesca di fatto ad avere luogo. Fare pace è per molti versi più complesso che perdonare. Mentre il perdono può essere un atto unilaterale e incondizionato, la riconciliazione presuppone l’impegno e gli sforzi congiunti di entrambe le persone coinvolte, non solo della vittima che perdona, ma anche dell’offensore, che deve assumersi le proprie responsabilità e offrire rassicurazioni circa la propria moralità e le proprie intenzioni future (“Molte riconciliazioni promettenti falliscono perché entrambe le parti arrivano preparate a perdonare, ma non ad essere perdonate” asseriva con acume lo scrittore inglese Charles Williams). 

Che cosa è il perdono

Oltre a definirlo per negazione, evidenziandone i tratti che lo distinguono dalle dinamiche affini, gli psicologi ritengono che il perdono interpersonale possa essere connotato positivamente come un processo prosociale (si veda glossario) attraverso il quale la vittima affronta l’offesa subita riducendo progressivamente le sue reazioni negative a livello di pensieri, sentimenti, motivazioni e/o comportamenti nei confronti di chi ne è stato l’autore per sostituirle con reazioni positive (McCullough, 2000). In questo processo l’offensore viene percepito e considerato più come uno specifico individuo (Mario, Susanna, & Hussein) che non, come avviene invece nel caso del perdono intergruppi, come membro di determinati gruppi sociali (interista, sindacalista, mussulmano). Concependolo in questi termini, la vittima che perdona ridimensiona a poco a poco i giudizi di condanna ed i pensieri negativi su di lui, supera il risentimento o la paura provati nei suoi riguardi, rinuncia ai propri intenti vendicativi o di fuga. 

Non solo. A differenza di chi semplicemente si astiene dal vendicarsi o dall’evitare, colui che perdona arriva anche a provare compassione per l’offensore, ad essere benevolo e generoso e, qualora a lui legato da un rapporto stretto, a nutrire nuovamente affetto nei suoi riguardi (Enright & Fitzgibbons, 2000; McCullough, Worthington, & Rachal, 1997; Ripley & Worthington, 2002). Si tratta ovviamente di cambiamenti difficili, che suppongono una lenta e dolorosa rielaborazione interiore, una bella metafora dei quali può essere ravvisata nel lungo viaggio intrapreso da Alvin Straight, le cui vicende sono ripercorse nel film Una storia vera di David Lynch (1999). Quando viene a conoscenza dell’infarto che ha colpito il fratello, con cui non parla da oltre un decennio per un vecchio litigio, l’anziano Alvin, che non ha più la patente e cammina a fatica, decide di andarlo a trovare prima che sia troppo tardi, percorrendo 317 miglia, dall’Iowa al Wisconsin, a bordo di un trattorino-taglierba. Non vuole viaggiare in treno o in pullman, sente che, per poter rompere il silenzio di tanti anni e colmare la distanza con il fratello, deve procedere lentamente e da solo. Spostandosi per oltre sei settimane con il suo curioso mezzo di trasporto ha l’occasione di riflettere, capire e vedere meglio lo spazio (non solo geografico) tra le persone. Il viaggio diventa il simbolo del suo cammino verso il perdono e ogni incontro è un aiuto in questa direzione: il colloquio notturno con una ragazza incinta fuggita da casa gli dà modo di ripensare al valore dei legami familiari che i rancori del passato hanno rischiato di distruggere; l’incontro con una donna che ha investito un cervo è occasione per una dolorosa presa di coscienza dell’impotenza di fronte alla morte e del fatto che si può essere portatori di sofferenza anche involontariamente; il dialogo con il sacerdote che ha conosciuto il fratello all’ospedale gli infonde fiducia che la propria offerta di perdono sarà accolta. Dopo un lungo viaggio, Alvin riesce ad arrivare fino in fondo, a testimonianza che la distanza si può ridurre e abbattere, ma solo dopo averla metabolizzata lentamente e a fatica. Non ha senso esigere i cambiamenti dolorosi che il perdono presuppone nell’immediato. Forse anche per questo le domande dei cronisti, che, a ridosso dell’ennesima atrocità riportata dai media, interrogano le vittime circa un loro eventuale perdono, paiono quanto mai inopportune e irrispettose della sofferenza altrui. Proprio per questo un perdono accordato repentinamente, in modo immediato e impulsivo, fa giustamente dubitare della sua autenticità.

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