Due papà, due mamme. Quali riflessioni per sfatare i pregiudizi verso le famiglie e le genitorialità omosessuali?

Questi interrogativi, che ancora una volta rimandano alla riflessione sui pregiudizi ad essi sottostanti, consentono di rilevare che l’orientamento sessuale è una dimensione autonoma, che non interferisce con nessuna delle componenti alla base della funzione genitoriale. Non ci sono presupposti teorico-concettuali, al di là di visioni preconcette, sulla base dei quali è possibile asserire che un soggetto con orientamento omosessuale sia un individuo incapace di esercitare la funzione genitoriale. In modo ancora più incisivo è possibile rilevare, allo stesso modo, che non ci sono variabili in grado di chiarire, in modo inequivocabile, che un soggetto eterosessuale è di default competente rispetto a tale funzione. I casi di maltrattamento ad abuso all’infanzia presenti in famiglie nucleari con genitori eterosessuali mettono, ad esempio, in evidenza come l’eterosessualità non sia immediatamente collegata ad un’adeguata espressione della genitorialità, sottolineando che la grave disfunzionalità di tali famiglie sia da collegare a complessi fattori di rischio interagenti tra loro e non all’orientamento sessuale dei genitori. Ne consegue che la variabile orientamento sessuale è completamente indipendente rispetto all’esercizio (funzionale o disfunzionale) delle capacità insite nel costrutto di genitorialità (sia eterosessuale, sia omosessuale).

Se, inoltre, per puro e paradossale esercizio del pensiero, si volesse ammettere che l’orientamento sessuale incida sul sistema dinamico individuale che sottende l’esercizio della funzione genitoriale, rimarrebbe tuttavia da dimostrare in che modo sussista la supposta correlazione tra eterosessualità e funzionalità, così come tra omosessualità e disfunzionalità, prescindendo da posizioni cariche di pregiudizio che tendono a considerare l’omosessualità stessa non come uno degli orientamenti sessuali possibili, quanto più che altro come una condizione patologica, disfunzionale, malata e perversa. Concezione quest’ultima dichiarata assolutamente erronea, fallace ed inconsistente dalle maggiori associazioni mondiali che si occupano di salute mentale.

 

Famiglia, genitorialità, omosessualità: quali considerazioni conclusive?

La nostra riflessione è partita dall’attraversamento del costrutto di famiglia, per poi transitare al concetto di genitorialità e alle sue diverse e complesse funzioni. Sulla base di tale approccio, questo contributo ha inteso approfondire i criteri metodologici ed epistemologici per decostruire le maglie restrittive e rigide di quel pensiero unico, fondato su istanze eteronormative e genderiste, che lasciano poco spazio all’affermazione di modelli culturali in grado di dare statuto di esistenza, legittimazione e tutela alle persone omosessuali come genitori e soprattutto ai loro figli e alle loro figlie. Su questo livello di analisi, sfatare o superare logiche discriminanti in tema di omogenitorialità vuol dire riconoscere che slogan quali “i bambini hanno bisogno di un padre e di una madre”, “dobbiamo garantire i diritti dei bambini di crescere in famiglie normali”, “per i bambini la vera famiglia è quella costituita da un padre e una madre che svolgono funzioni differenti ed integrate” celano in realtà -sotto le false preoccupazioni per il principio imprescindibile e sovraordinato della tutela del bene dei minori- un atteggiamento di fortissima opposizione nei confronti dell’omosessualità, considerata ancora come una “condizione” patologica, disfunzionale e perversa. Nello stesso tempo manifestano un atteggiamento di difesa della tradizione, mettendo sullo stesso piano, come elementi consequenziali del simbolico sillogismo del pregiudizio, la difesa dello status quo, il sessismo e l’omofobia; il tutto con la conclusiva deduzione che è impossibile riunire all’interno della medesima etichetta semantica termini quali famiglia/genitorialità ed omosessualità.

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