Come ridurre il pregiudizio: Il punto di vista della psicologia sociale

Negli anni intercorsi dalla sua formulazione, sono state prodotte centinaia di evidenze empiriche che mostrano come il contatto tra i gruppi migliori i rapporti fra membri di gruppi diversi, in relazione a zone geografiche, gruppi target e contesti estremamente differenti tra loro (per una meta-analisi, si veda Pettigrew & Tropp, 2006). Tali evidenze non riguardano solamente studi sperimentali condotti in laboratorio (ad es., Page-Gould, Mendoza-Denton, & Tropp, 2008), bensì anche studi sul campo in contesti naturalistici (ad es., Levin, van Laar, & Sidanius, 2003). Inoltre, il contatto non riduce solamente le forme più manifeste di pregiudizio, ma è efficace anche per limitare il pregiudizio implicito delle persone (Turner, Hewstone, & Voci, 2007; Vezzali & Giovannini, 2011). 

Nonostante le molte conferme a favore, alcuni autori si sono interrogati sul modo migliore di strutturare il setting di contatto al fine di potenziarne gli effetti sulla riduzione del pregiudizio (si veda a tale proposito Voci & Pagotto, 2010). Brewer e Miller (1984) hanno notato che, dal momento che la categorizzazione in ingroup e outgroup è sufficiente per creare pregiudizio (Tajfel, 1981), è opportuno ridurre la salienza categoriale durante il contatto, così che le persone si vedano come individui unici e non come membri di gruppo. In questo modo, se una persona dell’outgroup è vista come una persona diversa da tutte le altre, con i suoi pregi e difetti individuali, non ha senso applicare ad essa gli stereotipi e i pregiudizi comunemente associati al suo gruppo di appartenenza. Ad esempio, se un italiano ha rapporti con un marocchino di nome Ahmed, non lo discriminerà nella misura in cui quella persona non è un “marocchino,” ma solo e semplicemente “Ahmed.” Hewstone e Brown (1986; Brown & Hewstone, 2005) notano però che le persone non possono fare a meno di categorizzare gli altri in gruppi e che la categorizzazione è fondamentale per la generalizzazione, cioè per il processo che porta ad estendere gli atteggiamenti positivi verso un membro dell’outgroup, maturati durante il contatto, a tutti gli appartenenti all’outgroup. Ad esempio, se un italiano ha un contatto positivo con il marocchino Ahmed tale da migliorare l’atteggiamento verso questa persona, egli generalizzerà tale atteggiamento a tutti i marocchini solo se Ahmed è visto come un marocchino (se viene visto invece come un individuo unico, e non come marocchino, non c’è ragione di pensare che, se Ahmed è una persona simpatica, anche gli altri marocchini lo sono). Gaertner e Dovidio (2000) propongono infine che è opportuno far sì che ingroup e outgroup interagiscano non come membri di gruppi distinti, bensì come facenti capo a un gruppo unico. Questo perché se una persona dell’outgroup è vista come un membro dell’ingroup non vi è ragione di discriminarla. Ad esempio, gli studenti di una scuola potrebbero vedere italiani e marocchini non come membri di gruppi nazionali diversi, ma semplicemente come studenti di quella scuola. Così, non vi è ragione per gli italiani di discriminare il marocchino Ahmed, che è percepito come studente della scuola al pari degli altri a prescindere dalla nazionalità.

Questi risultati hanno portato molti psicologi sociali a considerare il contatto intergruppi come una delle strategie più valide per affrontare il problema della riduzione del pregiudizio. Tuttavia, in maniera piuttosto sorprendente data la mole di studi sull’ipotesi del contatto, solo pochi studiosi hanno tentato di applicare tale strategia per ridurre il pregiudizio in interventi strutturati sul campo. In relazione a questi interventi e strategie, Paluck e Green (2009) hanno realizzato una rassegna esaustiva, trovando che su 107 interventi sperimentali sul campo solo il 10% era basato esplicitamente sull’ipotesi del contatto; da notare, inoltre, che quasi tutti questi studi sono stati condotti in contesti scolastici. Un esempio di intervento sperimentale sul campo è offerto dallo studio di Maras e Brown (2000), i quali hanno esaminato gli atteggiamenti verso i disabili di bambini normodotati di età compresa tra i cinque e gli undici anni. Si sono considerati tre tipi di disabilità: fisiche, di apprendimento, uditive. I bambini provenivano da scuole dove le differenze tra i gruppi erano rese salienti (contatto categorizzato) oppure da scuole dove i disabili non erano visti come un gruppo diverso da quello dei normodotati (contatto decategorizzato). I risultati hanno mostrato che gli atteggiamenti nei confronti dei membri conosciuti dell’outgroup erano associati agli atteggiamenti nei confronti dei membri sconosciuti in misura maggiore nelle scuole con contatto categorizzato rispetto a quelle con contatto decategorizzato (dunque, l’esperienza positiva di contatto si generalizza di più, cioè si ha un legame più forte tra atteggiamenti per i membri dell’outgroup conosciuti e sconosciuti, quando le appartenenze di gruppo sono salienti). Un altro esempio è fornito dai celebri studi sui campi estivi di Sherif e collaboratori (Sherif, Harvey, White, Hood, & Sherif, 1961), strutturati in più fasi. Nelle prime fasi, i partecipanti erano divisi in gruppi e messi in competizione in vari tipi di attività ludiche. Nelle fasi successive, l’introduzione di “scopi sovraordinati,” in seguito ai quali i gruppi in conflitto erano costretti a unire le forze e a cooperare per raggiungere l’obiettivo, miglioravano le relazioni intergruppi. Tali scopi sovraordinati costituivano una chiara operazionalizzazione delle condizioni ottimali previste da Allport (1954) affinché il contatto sia efficace.

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