Come rendere più umani gli altri gruppi: Effetti del contatto sull’infraumanizzazione dell’outgroup

Nonostante la mole impressionante di studi sul contatto intergruppi, poche ricerche hanno testato l’efficacia di questa strategia sull’infraumanizzazione dell’outgroup. Brown e collaboratori (Brown, Eller, Leeds, & Stace, 2007) hanno condotto uno studio longitudinale in una scuola superiore statale inglese, misurando gli atteggiamenti degli studenti nei confronti di studenti di una scuola privata superiore della stessa città. I risultati hanno indicato che i partecipanti che avevano contatti più frequenti con studenti della scuola rivale all’inizio dell’anno scolastico mostravano minore infraumanizzazione (cioè, differenziavano meno tra ingroup e outgroup nell’attribuzione di emozioni secondarie positive, come speranza e simpatia) a fine semestre. Contrariamente a quanto si trova generalmente negli studi sul contatto, la qualità dei rapporti con i membri dell’outgroup non aveva effetti.

Tam e collaboratori (2007) hanno condotto due studi per testare l’effetto del contatto sull’infraumanizzazione considerando una relazione particolarmente conflittuale, quella tra cattolici e protestanti in Irlanda del Nord, teatro di un conflitto durato molti anni e dove ancora oggi la segregazione tra le due comunità religiose resiste in molti ambiti della società. I partecipanti erano studenti universitari cattolici e protestanti. In entrambi gli studi si è trovato che avere contatti frequenti e positivi con membri dell’altra comunità religiosa riduceva l’infraumanizzazione (cioè, limitava la tendenza ad attribuire in misura maggiore emozioni secondarie all’ingroup che all’outgroup). Inoltre, l’infraumanizzazione (insieme a ridotta rabbia e ad atteggiamenti intergruppi più positivi) mediava gli effetti del contatto sul perdono per quanto fatto dall’altra comunità alla propria nel corso del conflitto. In altre parole, il contatto riduceva l’infraumanizzazione e, tramite tale riduzione, cresceva il perdono nei confronti dell’altra comunità.

I due studi appena descritti hanno un limite importante: non chiariscono perché il contatto riduca l’infraumanizzazione. Tale limite è stato affrontato da Capozza e collaboratori (Capozza, Trifiletti, Vezzali, & Favara, in press), che hanno condotto due studi con abitanti italiani di una città del Centro Italia e con studenti settentrionali di un’università del Nord. Gli autori hanno testato un’estensione del modello dell’identità dell’ingroup comune (Gaertner & Dovidio, 2000), secondo cui il contatto dovrebbe migliorare gli atteggiamenti perché agisce sulla categorizzazione ingroup-outgroup (trasformando le percezioni da gruppi separati a un gruppo sovraordinato che include ingroup e outgroup) e sulle emozioni intergruppi (si veda anche Capozza, Vezzali, Trifiletti, Falvo, & Favara, 2010). I risultati hanno complessivamente dimostrato che il contatto positivo (qualità del contatto) con i membri dell’outgroup (immigrati nello Studio 1; meridionali nello Studio 2) portava a vedersi meno come gruppi distinti e più come membri di uno stesso gruppo. La percezione di far parte di uno stesso gruppo, a sua volta, riduceva l’ansia (Studio 1) e aumentava l’empatia (Studio 2) provate nei confronti dell’outgroup; minor ansia e maggiore empatia facevano crescere l’umanizzazione dell’outgroup, cioè l’attribuzione ad esso di tratti unicamente umani, quali razionalità e moralità. Quindi, il contatto con l’outgroup favorisce la sua umanizzazione perché porta a percepire ingroup e outgroup come parti di un gruppo unico e perché riduce l’ansia e aumenta l’empatia, due emozioni fortemente implicate nella riduzione del pregiudizio (si veda Pettigrew & Tropp, 2008).

Il contatto indiretto: contatto esteso e contatto immaginato

Gli studi descritti indicano che il contatto intergruppi è una strategia efficace per ridurre l’infraumanizzazione; il contatto potrebbe, comunque, essere difficile in un’ampia varietà di situazioni, ad esempio, in contesti molto segregati, dove le opportunità di contatto sono scarse o nulle. Inoltre, se le relazioni tra i gruppi sono conflittuali, gli individui potrebbero non voler incontrare membri dell’outgroup, per paura, ansia o anche per evitare conseguenze sociali (ad es., essere visti in maniera negativa dagli altri membri dell’ingroup). Tuttavia, strategie di contatto diretto (si veda glossario) potrebbero essere difficilmente implementabili anche in contesti meno segregati, perché costose o difficilmente realizzabili sul piano organizzativo. Si pensi al caso di un intervento di riduzione del pregiudizio nei confronti dei disabili all’interno di una classe di bambini di scuola elementare. Dal momento che i bambini disabili di una classe (quando presenti) sono pochi e stanno spesso con insegnanti di sostegno, per avere un contatto diretto occorrerebbe portare i bambini normodotati in un istituto dove sono presenti bambini disabili, con ovvi disagi dovuti all’organizzazione, al consenso dei genitori, al tempo sottratto alle lezioni. È allora necessario individuare strategie di riduzione del pregiudizio che non prevedano un contatto diretto con membri dell’outgroup. Un esempio è dato dalle strategie basate sul contatto indiretto (cioè, un contatto che non preveda un’interazione diretta con membri dell’outgroup; si veda glossario).  

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