Autostereotipizzazione: Una Questione di Status Sociale

Questi risultati sono perfettamente allineati con quelli di un altro studio (Latrofa, Vaes, Pastore, & Cadinu, 2009), in cui si dimostra che l’autostereotipizzazione è una risorsa fondamentale per i membri di gruppi stigmatizzati. In quest’ultimo caso, i ricercatori sono partiti dal modello di rifiuto-identificazione (Rejection-Identification Model, Branscombe, Schmitt, & Harvey, 1999), secondo il quale la percezione di discriminazione avrebbe degli effetti negativi sulla percezione di benessere fisico e psicologico da parte dei membri del gruppo stigmatizzato. Paradossalmente, questo modello evidenzia come all’aumentare della percezione di discriminazione aumenti l’identificazione con il gruppo e come quest’ultima vada a compensare gli effetti negativi della prima. In linea con questo modello Latrofa e colleghi (2009), selezionando un campione di meridionali (gruppo di basso status e tuttora oggetto di discriminazione in Italia) hanno trovato che effettivamente la percezione di discriminazione abbassava la loro percezione di benessere psicologico. In maniera più interessante, estendendo il modello di Branscombe e colleghi, dai risultati è emerso che, quando i partecipanti si sentivano discriminati (“Mi sono personalmente sentito vittima di pregiudizio perché sono un meridionale”), il sentirsi parte del gruppo (identificazione) aveva un effetto positivo nel ristabilire il benessere psicologico, ma solo quando era accompagnato anche da autostereotipizzazione. Questi risultati hanno portato gli autori a concludere che l’autostereotipizzazione consentirebbe ai membri di gruppi stigmatizzati di riaffermare la propria identità collettiva in termini di tratti stereotipici dell’ingroup, indipendentemente dalla loro valenza. In altre parole, perché autostereotipizzarsi? Perché più mi sento uguale agli altri membri dell’ingroup anche negli aspetti negativi, meglio mi sento. Perché allora questo processo ristabilisce il benessere psicologico? Perché sento di non essere solo e che l’unione con gli altri membri del gruppo mi dà forza.

È un meccanismo automatico?

Le ricerche presentate finora hanno indagato vari aspetti dell’autostereotipizzazione utilizzando strumenti espliciti, come i questionari, che rilevano gli atteggiamenti consapevoli e controllati degli individui. L’approccio della psicologia sociale noto come cognizione sociale ha però evidenziato che gli atteggiamenti si manifestano anche in modo implicito, cioè in modo automatico e inconsapevole. A questo proposito, Cadinu e Galdi (2012) hanno misurato non solo gli aspetti espliciti, ma anche gli aspetti impliciti dell’autostereotipizzazione, mettendo a confronto un campione di donne (basso status) con un altro composto invece da uomini (alto status). In particolare, le ricercatrici hanno ipotizzato che, rispetto ai membri di un gruppo ad alto status (maschi), solo per i membri di un gruppo a basso status (donne) l’appartenenza all’ingroup sarà altamente accessibile (High Accessibility of Low Status Ingroup Membership; HALSIM). Detto in altre parole, l’identità di genere sarebbe molto più accessibile per le donne rispetto a quanto accade per gli uomini. Inoltre, le autrici hanno ipotizzato che proprio questa maggiore accessibilità dell’identità sociale di genere condurrebbe le donne ad autostereotipizzarsi maggiormente, rispetto a quanto ci si dovrebbe aspettare dalla controparte ad alto status (gli uomini).

 

L’accessibilità cognitiva (si veda glossario) dell’identità di genere è stata misurata attraverso un Implicit Association Test (IAT; si veda glossario) di auto-categorizzazione (Gender Self-Categorization IAT), che ha consentito di rilevare la forza delle associazioni automatiche tra il sé e l’ingroup di genere. Un secondo IAT è andato a rilevare la forza delle associazioni tra il sé e gli attributi stereotipici del proprio ingroup per determinare il grado di autostereotipizzazione automatica (Gender Self-stereotyping IAT). In accordo con il modello proposto e le ipotesi avanzate, le ricercatrici hanno trovato che, rispetto ai gruppi ad alto status, per i membri di un gruppo a basso status l’identità sociale è più saliente ed accessibile a livello implicito. Infatti, le donne hanno mostrato una maggiore facilità ad auto-categorizzarsi come donne, rispetto a quanto gli uomini si categorizzassero in quanto uomini. Inoltre, in linea con i precedenti studi presentati (Latrofa et al., 2010), la ricerca ha dimostrato che le donne si autostereotipizzavano maggiormente rispetto agli uomini, anche a livello implicito, associando a sé stesse in modo automatico gli attributi stereotipici del genere femminile. In generale, quindi, sembra che il definirsi automaticamente membri di un gruppo a basso status (auto-categorizzazione) conduca anche ad autostereotipizzarsi, probabilmente senza che vi sia consapevolezza da parte dell’individuo stigmatizzato. È allora possibile che questa maggiore accessibilità alla propria identità di gruppo favorisca, ad esempio, una maggiore vigilanza (anche non consapevole) verso gli indizi ambientali di discriminazione?

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